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Giustizia, le minacce di Giuseppe Conte sulla riforma? Spuntate: cerca solo una via d'uscita

Alessandro Giuli
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Gli analisti di politici almanaccano sulla sparata Giuseppe Conte contro la riforma Cartabia – «senza modifiche sui processi per mafia, non voteremo la fiducia» –ma non molti fra loro hanno compreso che quella di Conte non è tanto una minaccia quanto l’offerta di una exit strategy comune. L’ex premier aveva bisogno di battere un colpo,farsi notare marcando il territorio come novello leader del Movimento Cinque stelle, sicché ha stabilito di orientare la propria sortita sul core business grillino stando bene attento a circoscriverne il perimetro su un tema largamente preoccupante e condivisibile.

Ovvero i reati di mafia per i quali sono previste pene minori, che secondo la posizione pentastellata non devono cadere sotto la scure dell'improcedibilità sul limitare del terzo anno dopo l'appello, come già sottolineato nei giorni scorsi dalla magistratura militante effigiata dalla figura di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro impegnato in prima linea sul fronte della lotta contro la 'ndrangheta e uno dei primi togati a respingere al mittente il testo del Guardasigilli.

 

 

 

L'adesione di Conte al lodo Gratteri per il momento è ancora generica, frutto della necessità di esplorare i margini d'una trattativa Stato-Cinque stelle che s' annuncia complessa ma non impossibile. I grillini hanno così piantato la loro bandiera più popolare, impugnando lo stendardo legalista meno sindacabile dal mondo esterno e su cui non è escluso che si possa trovare una mediazione soddisfacente. Dopotutto, di là dalla (flebile) tentazione di strappare con la maggioranza allargata in pieno semestre bianco, s' intravede piuttosto in campo grillino la ricerca di un'unità d'intenti condivisibile anche dall'ala governista di Beppe Grillo e Luigi Di Maio, indisponibile a regalare in un colpo solo la rotta del Movimento a Conte e il baricentro del governo al blocco di centrodestra. Protetta dall'ombrello granitico di Mario Draghi e molto apprezzata dal Quirinale - dove però abita un inquilino per ovvie ragioni sensibilissimo ai temi connessi alla mafia - finora Marta Cartabia si è mostrata poco conciliante, ma è verosimile che i tecnici del suo ministero si ritroveranno impegnati in un'operazione più che cosmetica sul dossier sollevato dall'avvocato di Volturara Appula.

C'è inoltre da considerare questo: tra l'assunzione del nuovo personale amministrativo e dei prossimi magistrati di prima nomina e la loro completa messa a regime nei tribunali trascorrerà giusto il tempo che ci separa dalla conclusione della legislatura. Risultato: il testo in esame rimarrebbe lettera viva ma sostanzialmente inapplicata dagli attuali protagonisti. E se non è dato scommettere sul profilo del governo che uscirà fuori dalle urne del 2023, è tuttavia possibile indovinare una ragione in più affinché si guardi ancora all'attuale timoniere e ai suoi consiglieri affinché conducano a destinazione le risorse concesse (per lo più a debito) all'Italia dall'Unione europea, e che una segreteria tecnica presso la Presidenza del Consiglio assieme all'Unità per la qualità della regolazione (organismi controllati direttamente da Palazzo Chigi) saranno chiamate a gestire in un arco temporale con scadenza nel 2026. Si tratta insomma di stabilizzare nel lungo termine i punti cardinali della giustizia su cui incombe il giudizio di Bruxelles, un verdetto al quale sono vincolate robuste tranche del Recovery Plan.

 

 

 

 

Intanto restano cinque giorni entro i quali le diplomazie in azione cercheranno di trovare un punto di equilibrio: la riforma del processo penale giungerà in Aula alla Camera venerdì 30 luglio ma la delegazione di governo grillina ha già pronunciato due pesanti "sì" in Consiglio dei ministri, sia nel merito del testo sia sulla scelta di autorizzare il voto di fiducia. Ce n'è quanto basta per costruire intorno ai reati di mafia una via d'uscita non disonorevole per il partito delle procure. A meno che la soluzione di ripiego non sia una nuova e tardiva richiesta di rinvio, a questo punto irricevibile salvo colpi di scena ben poco draghiani, Grillo e Conte hanno raggiunto un compromesso per tenere uniti i gruppi parlamentari. Alla maestà di Palazzo Chigi spetta ora il compito di vergare la sentenza senza sacrificare il buon nome di Cartabia. 

 

 

 

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