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Luca Palamara attacca anche il Quirinale. Toghe e politica, quello che non avete letto sui giornali

Paolo Ferrari
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Circa sei ore. Tanto è durata ieri a Perugia la deposizione di Luca Palamara davanti al giudice Piercarlo Frabotta. L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, dopo aver rilasciato delle «spontanee dichiarazioni», si è fatto anche interrogare dai magistrati umbri per chiarire una volta per tutte come funzionava il «sistema delle nomine» al Consiglio superiore della magistratura. Secondo la procura di Perugia un ruolo di primo piano lo avrebbe avuto Fabrizio Centofanti, un lobbista che era stato poi arrestato insieme all'avvocato Piero Amara, quest' ultimo noto alle cronache per aver rivelato l'esistenza della loggia segreta "Ungheria", una sorta di P2 finalizzata ad aggiustare i processi e condizionare gli incarichi ai vertici dello Stato. Palamara, in particolare, sarebbe stato corrotto con pranzi, cene e viaggi da Centofanti. In cambio di queste "utilità" il magistrato gli avrebbe consentito di «partecipare a incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm nei quali si pianificavano le nomine». Inoltre Palamara si sarebbe reso disponibile ad accogliere le richieste di Centofanti «finalizzate ad influenzare nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare». Niente di più falso, ha ribadito più volte Palamara davanti al giudice.

 

 

 

Spartizioni

Le nomine dei procuratori e dei presidenti, ha puntualizzato, sono state decise sempre e soltanto dalle correnti della magistratura. È impensabile, ha ricordato Palamara, che un soggetto estraneo potesse condizionare in alcun modo le scelte del Csm. Palamara ha fatto anche degli esempi. Il più emblematico, certamente, quello relativo alla procura di Milano. Dopo il pensionamento di Edmondo Bruti Liberati avevano fatto domanda per diventare procuratore Giovanni Melillo, Nicola Gratteri e tre procuratori aggiunti milanesi: Ilda Boccassini, Alberto Nobili e Francesco Greco. «I magistrati di Milano volevano Nobili», ha ricordato Palamara, «ma gli accordi fra correnti fecero però vincere Greco». E sempre per rimanere alla Procura di Milano, tutti i procuratori aggiunti, quindi i più stretti collaboratori del procuratore, verrebbero scelti per logiche che nulla hanno a che vedere con il merito, essendo condizionate dai legami territoriali-correntizi. Non ci sarebbe spazio, dunque, per candidature esterne. Un accenno Palamara lo ha fatto anche alla genesi dell'indagine nei suoi confronti. «Tutti sapevano che ero indagato», ha detto: «Nei corridoi della Procura di Roma non si parlava d'altro». C'era «diffidenza» da parte dei colleghi, al punto che «avevo anche pensato di abbandonare la Capitale per il clima che si era creato». Alcuni magistrati gli dissero di stare poi «lontano da Cosimo Ferri», deputato renziano di Italia viva e per anni ras indiscusso delle toghe di "destra". «Il trojan ha registrato una conversazione poco simpatica fra me e Cosimo Ferri in cui parlavamo della pm Gemma Miliani», legata alla moglie di Ferri da rapporti di amicizia e familiarità, ha ricordato Palamara. Dell'indagine, pare, fosse poi a conoscenza anche il consigliere giuridico del Quirinale Stefano Erbani. Il collaboratore di Sergio Mattarella avrebbe detto ad un consigliere del Csm che esisteva a Perugia una informativa sui viaggi e sulle cene nei confronti di Palamara. L'ex numero uno dell'Anm, infine, si è anche tolto qualche sassolino dalle scarpe. Nel mirino il funzionamento a singhiozzo del trojan che era stato inserito nel suo cellullare. Il virus spia non aveva registrato, ad esempio, la sua cena con il procuratore Giuseppe Pignatone.

 

 

 

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