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Vittorio Feltri, "Monsignor Becciu come Tortora". Il pentito in Vaticano, dubbio su Papa Francesco

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Avevo anticipato che mi sarei occupato del caso Becciu a partire da una strana faccenda. È chiaro come il sole che il processo che sta per partire il 27 luglio e che vede dieci imputati, tra cui il cardinale Angelo Becciu, si regge non tanto su dati di fatto accertati, ma sulle dichiarazioni di un pentito. Non due, tre, quattro anzi 24 pentiti come capitò a Giulio Andreotti, ma a uno solo, come già accadde a Enzo Tortora. Da che cosa lo deduciamo? Dalla sparizione di un monsignore, Alberto Perlasca, scagionato a priori senza alcuna spiegazione, tirato fuori immacolato dai presunti turpi affari del palazzo di Londra, di cui era stato per sua stessa ammissione un protagonista. Che sia lui il perno di tutto, una persona trasformata in pistola fumante, lo si comprende non solo dall'uso che delle sue dichiarazioni fanno i pm vaticani ma dal trattamento eccezionale riservatogli. Come se fosse stato prelevato in elicottero nottetempo dalle guardie svizzere per ragioni che non appartengono al codice conosciuto, dato che in Vaticano non esiste alcuna legislazione che premi il pentito divenuto collaboratore di giustizia. Vedremo a processo se reggerà il contraddittorio. Intanto la domanda che riguarda ogni pentito che si rispetti, secondo il metodo Falcone, è se sia credibile, riscontrabile, se abbia davvero detto tutto, o si sia ritagliato verità su misura. Be'. Tutti i quotidiani e i tg italiani hanno succhiato come il latte dalla mammella materna le conclusioni colpevoliste dell'ordinanza diffusa sabato scorso in Vaticano, ma quel latte è avvelenato. E il volume delle 488 pagine di accuse porta nel suo seno un vulnus che lo smonta in origine.


INDAGINI E OMISSIONI - Il fatto è che a Londra c'è già stato un processo che ha ridotto in polvere le argomentazioni basate su Perlasca. Lo scorso marzo il giudice di Londra che ha dovuto pronunciarsi sulla richiesta di arresti e sequestri chiesta alla giustizia di Sua Maestà dai procuratori vaticani è stato addirittura irridente. Senza mai nominare nelle sue 47 pagine Becciu, che secondo lui non c'entra proprio nulla con questo pasticcio, parla di indagini caratterizzate da «omissioni», elementi «distorti» e dal «chiaro travisamento» dei fatti. Scrive Sua Onorabilità Baumgartner: «Il professor avvocato Alessandro Diddi dice che monsignor Perlasca era incapace e inetto. Anche se questo può essere vero, agire come un cospiratore disonesto è un'altra cosa». Forse è scemo il tuo Perlasca, ma delle due l'una: o è un povero inetto o è un geniale cospiratore, devi deciderti, e provare le accuse, senza nascondermi le carte, caro Diddi. Perché hai nascosto - aggiunge il giudice Baumgartner - le lettere da cui risulta che il successore di Becciu, l'arcivescovo Edgar Peña Parra, aveva autorizzato l'operazione incriminata, a sua volta con il consenso del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e non li accusi di nulla? Insomma: Perlasca è una pasta plasmata per la bisogna dai pm, i quali modellano il monsignore per il comodo dell'accusa, come un gettone da infilare nel juke box e poi schiacciare il bottone affinché suoni la musica desiderata. Credibile Perlasca? Mica tanto. Alle 42 pagine di Baumgartner (46 in italiano), e ai suoi rilievi fattuali e di pura logica empirica, per mesi il Vaticano non ha dato risposta. Non ha fatto appello a istanze giudiziarie superiori. Bisogna saper aspettare il momento giusto, quando tutti si inchineranno alla volontà purificatrice delle toghe papaline. Ed è arrivato il 3 luglio. Ci sono sette pagine dedicate a Baumgartner, tra le 488 pagine della requisitoria. Le tesi divergenti rispetto a quelle maturate all'ombra del Cupolone vengono stracciate con i denti, prese a calci come un topo morto collocato sul tappeto rosso della propria gloria. Ma non dicevano i magistrati che le sentenze si rispettano, specie quelle definitive e non appellate? Ovvio: solo quelle dove si danno ragione tra loro come Cip e Ciop.


CORTE INGLESE - Ma Londra non ama le camarille. E allora i pm vaticani si lasciano travolgere dall'ira, usano concetti privi dell'ironia con cui li aveva sculacciati Baumgartner. Normalmente in Italia siamo animati da una certa invidia verso l'imparzialità insieme austera e carica di humor dei giudici di Sua Maestà britannica. Tanto più che è proprio sulla contesa del palazzo di Londra trattata dalla corte inglese che si è costruita la poderosa ghigliottina, la quale - si dà per scontato - taglierà la testa al cardinale Angelo Becciu. Stavolta nulla. Tutti, ma proprio tutti, si sono inchinati all'unisono davanti alle considerazioni di Alessandro Diddi, promotore di giustizia (pm) della Città-Stato, ignorando le disinteressate lezioni di Baumgartner. Hanno consentito che in questa disfida a menare sia solo il Vaticano. A proposito di giornalismo laico. E che fa Diddi? Usa un aggettivo da sfida a duello, accusa il giudice di aver vergato nella sua sentenza «aberranti conclusioni». Chi è Diddi? Baumgarntner lo chiama «professor avvocato». Infatti è avvocato del foro di Roma, e in questa veste ora difende un tipetto del clan Casamonica, e in contemporanea fa il pm in Vaticano. E questo è solo uno degli strani intrecci esistenti tra giustizia d'Oltretevere e quella di qua dal Tevere. Giovanni Spadolini auspicava un Tevere più largo. Si dà il caso che avvocati e procuratori si spostino dai palazzi di giustizia italiani, o addirittura dal ministero della Giustizia (l'ex guardasigilli Paola Severino è stata ingaggiata come avvocato di parte civile della Segreteria di Stato), camminando tranquillamente sulle acque come a suo tempo il Nazareno. Miracoli di cui francamente avremmo fatto a meno per la trasparenza che dovrebbe valere ovunque ci sia di mezzo un qualsiasi essere umano che rischia la ghirba.

LA REQUISITORIA - Cose curiose avvengono nel giornalismo italiano. Nessuno ha sollevato il problema del conflitto di interessi che attraversano questo tribunale vaticano. Si noti che nella medievale procedura giudiziaria dello Stato del Papa non esiste il gip. La requisitoria dei pm (nel nostro caso Diddi) è una sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio, e avallata per tale nel nostro caso da Giuseppe Pignatone, che del Tribunale vaticano è presidente. Londra digerirà un simile documento vaticano di portata mondiale contro una deliberazione della sua giustizia. Se fosse stato un tribunale cinese contro un vescovo clandestino neanche un monsignoruccio qualsiasi avrebbe parlato di «aberranti conclusioni». E qui siamo a Tribunale contro Tribunale. Si noti il groviglio. Pignatone fino a un paio d'anni fa era procuratore capo di Roma, e reggeva l'accusa nel processo Mafia capitale contro Emanuele Buzzi, nell'occasione difeso da Diddi. Oggi si trovano a reggere la medesima pigna di carte, e giudicheranno un tale a cui il Papa ha già mozzato le orecchie dieci mesi prima di un regolare processo. Che non parte proprio con l'idea di essere un monumento alla trasparenza.

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