On. Pretto: mafia, beni confiscati, nuove sfide e strategie per un’antimafia più efficace

Intervista all’On. Erik Umberto Pretto (Lega), componente della Commissione parlamentare antimafia e della Commissione Affari sociali, da tempo impegnato sul tema della valorizzazione dei beni confiscati alla mafia
martedì 25 marzo 2025
On. Pretto: mafia, beni confiscati, nuove sfide e strategie per un’antimafia più efficace
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La Commissione sta sviluppando diversi filoni di inchiesta. Un’indagine specifica è quella sul cosiddetto “dossieraggio”. Stiamo approfondendo questi fatti per cercare di capire chi si è annidato nel sistema antimafia non per combattere gli eredi di Riina e di Messina Denaro ma per utilizzarlo come strumento improprio di lotta politica. Il nostro sforzo è duplice. Innanzitutto, capire chi utilizza l’antimafia per fini politici, riducendone l’autorevolezza fino a delegittimarla completamente. In secondo luogo, dobbiamo capire come proteggere il nostro sistema di lotta alla criminalità organizzata che ormai rappresenta un modello di riferimento anche per altri Paesi. Grazie ad una preziosa sinergia istituzionale di cui l’Italia deve essere fiera, possiamo dire dire che finalmente il nostro Paese esporta buone pratiche antimafia. Ora, infatti, persino l’Europa ha riconosciuto, con l’adozione di una nuova direttiva, che la criminalità si combatte con le confische dei patrimoni ai mafiosi e ai loro prestanome. Ma lo ha fatto con un forte ritardo, di oltre cinquant’anni rispetto alla nostra legge che risale al 1982.
 
Ma come sta cambiando la criminalità mafiosa? Quali sono le nuove sfide?

Dalle audizioni di magistrati e forze di polizia che operano su tutto il territorio nazionale, emerge chiaramente che le mafie stanno cambiando pelle. C’è, da un lato, un avvicendamento generazionale ai vertici delle varie organizzazioni criminali, che si ripercuote in un impiego più disinvolto delle nuove tecnologie, delle criptovalute e dei più moderni sistemi di comunicazione. Dall’altro, continua ad esserci un richiamo, per la verità più di facciata che di sostanza, agli originari caratteri delle mafie tradizionali. La realtà è che si tratta di associazioni criminali sempre più affariste ed internazionalizzate, che non esitano ad allacciare rapporti con organizzazioni straniere di ogni etnia, le quali forniscono spesso bassa manovalanza. La Commissione sta indagando su questi temi e presto verranno presentati i risultati di queste specifiche inchieste.
 
Come intervenire allora per combattere questa nuova criminalità mafiosa?

La chiave di volta rimane sempre quella indicata dal giudice Falcone: segui il denaro, confisca le ricchezze. Ma ora bisogna fare un necessario salto di qualità: non basta soltanto confiscare, è necessario confiscare bene ed utilizzare al meglio queste ricchezze. Troppo spesso il sistema antimafia dimentica di dare un adeguato ristoro alle vittime dei mafiosi utilizzando il denaro confiscato; troppo spesso non è assicurata la tutela dei terzi creditori in buona fede, che nulla hanno a che fare con la mafia; troppo spesso i Comuni che si fanno carico di dare nuova vita ai beni confiscati sono poi costretti, per cavilli giuridici cui stiamo tentando di dare una soluzione, a doverli restituire vanificando gli investimenti fatti per renderli funzionali. Infine, non è accettabile che tra la confisca definitiva ed il concreto riutilizzo del bene, nonostante gli sforzi del Ministero dell’Interno, possano passare anni con il rischio di trovarli vandalizzati, deteriorati o, peggio, abusivamente occupati.
In altri casi, abbiamo osservato come semplici cittadini che vantavano dei crediti di lavoro dipendente nei confronti di un’azienda risultata infiltrata dalla mafia e quindi confiscata si siano trovati poi sul lastrico perché, oltre ad aver perso il lavoro, non hanno ottenuto quanto di loro spettanza per effetto di un codicillo mal scritto o male interpretato dalle burocrazie antimafia.
Noi dobbiamo evitare che questo accada. Il nostro sistema antimafia deve saper andare oltre i grandi proclami, evitando di guadare soltanto al passato ed impegnandosi a risolvere i problemi del presente. Troppo spesso, il cittadino vede che nella propria città il bene mafioso si deteriora o torna nelle mani dei criminali, mentre lo Stato non riesce a garantire nemmeno il rimborso di piccoli crediti di lavoro nonostante l’enorme massa di ricchezza che ogni anno annunciamo di aver confiscato alle organizzazioni criminali.
 
Uno dei temi centrali del contrasto alla criminalità organizzata è il riutilizzo dei beni confiscati alle mafie. Quali sono le principali criticità che si riscontrano e quali strumenti ritiene più efficaci per accelerare e migliorare questo processo?

Le problematiche più frequenti, come emerso ascoltando tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei beni, attengono alle condizioni degli immobili, volutamente vandalizzati dai mafiosi per evitare che vengano utilizzati a fini sociali, oppure occupati dal criminale che cerca in tutti i modi di non consegnare allo Stato la propria abitazione. Spesso i beni sono gravati da ipoteche, trascritte in seguito alla concessione di mutui o di fidi, e va accertata la buona fede dei creditori del mafioso. Una volta che i beni sono destinati ai Comuni per fini sociali, frequenti sono gli atti intimidatori nei confronti delle cooperative o dei soggetti a cui gli immobili sono stati affidati, magari con incendi appiccati per renderli inservibili.
Inoltre i Comuni spesso non sanno che sul loro territorio vi sono beni confiscati e, spesso, non hanno le risorse economiche per provvedere alla loro ristrutturazione. Emblematico è il caso verificatosi in Veneto, la mia regione, nel piccolo Comune vicentino di Pojana Maggiore, dove nel 2015 il Sindaco ha appreso da notizie di stampa del sequestro di ben 24 immobili, confiscati definitivamente nel 2017 e di cui è riuscito ad avere l’assegnazione, dopo un lungo iter burocratico, soltanto nel 2023.
Per supportare gli Enti locali nelle richieste di assegnazione e nella gestione dei beni confiscati, il Comitato da me presieduto ha elaborato un apposito Vademecum, un agile strumento di orientamento per i Sindaci, utile a comprendere come agire per conoscere se sul loro territorio vi siano immobili sequestrati e confiscati, sulle procedure da seguire per averne la disponibilità e per ottenere specifici fondi pubblici e privati atti alla loro rifunzionalizzazione.
 
Nonostante i progressi vi è ancora molto da fare per rendere il riutilizzo dei beni confiscati un reale volano di sviluppo per i territori. Quali interventi normativi ritiene prioritari per migliorare l’efficacia di questo sistema?

Innanzitutto bisogna eliminare un po’ di burocrazia nella fase in cui deve essere accertata la buona fede dei creditori, così da procedere in modo sollecito al loro pagamento. Inoltre dovremmo immaginare come utilizzare al meglio quei 5 miliardi di euro liquidi che indicativamente ogni anno riusciamo a confiscare alle mafie. Oggi confluiscono al Fondo Unico Giustizia (FUG), un grande contenitore dove però gli Enti locali non hanno accesso. Anzi, devono andare a cercare altrove i fondi necessari per ristrutturare i beni e renderli idonei all’uso sociale. Penso che su questo punto ci sia molto da lavorare, in maniera trasversale. Per esempio, il FUG potrebbe funzionare come fondo di rotazione per l’erogazione di risorse ai Comuni o anche per fornire adeguate garanzie ai creditori certificati.
 
Di recente, è entrato a far parte della Commissione Affari Sociali. Quali saranno i suoi principali obiettivi in questo ambito e quali temi ritiene più urgenti da affrontare?

Direi che il mio ingresso in Commissione Affari Sociali rappresenti un naturale completamento di quello che è già il mio impegno in Commissione antimafia da due Legislature. I beni confiscati rappresentano infatti un concreto tema sociale. Si pensi a come un Comune può utilizzare, ad esempio, ville e appartamenti confiscati ad un esponente della criminalità organizzata: edifici in cui si possono realizzare non soltanto residenze per anziani o per soggetti vulnerabili, asili o biblioteche, ma anche studentati o abitazioni per chi si trova in uno stato di emergenza sociale. Necessità tipiche di una comunità locale che in primis l’Amministrazione comunale, o eventualmente quella provinciale o regionale, può valutare meglio di chiunque altro a livello centrale.