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Se dai pulpiti del fangofanno la predica a noi

Morte di D'Ambrosio, il Colle accusa il "Fatto" e Travaglio attacca "Libero". Per "Repubblica" facciamo caccia all'uomo. Ma chi firmò l'appello anti-Calabresi?
di Andrea Tempestini domenica 29 luglio 2012

4' di lettura

  La reazione di Marco Travaglio sul Falsario quotidiano era piuttosto scontata. Avendo condotto una campagna contro il Quirinale, utilizzando le intercettazioni tra Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino a sostegno delle proprie tesi sulla trattativa Stato-mafia, il portavoce della Procura di Palermo ha prima parlato d’altro, evitando di commentare la morte del consigliere giuridico del presidente della Repubblica e le accuse che erano state mosse, direttamente a lui e al suo giornale, da Giorgio Napolitano. Poi - passato un giorno - se l’è presa con i quotidiani che riportavano le frasi del capo dello Stato. Come se la notizia fosse la reazione dei colleghi e non che un uomo era morto e la più alta carica istituzionale del Paese aveva messo in relazione il suo decesso con la campagna stampa di Travaglio e dei suoi redattori. Non dico che ci saremmo aspettati delle scuse, questo no, ma almeno uno straccio di difesa. E invece lo spiritoso vicedirettore dello Strafatto quotidiano mette da parte il diritto di satira dietro cui si nasconde quando lo chiamano a rispondere di ciò che scrive e si arrampica sugli specchi, inventando di essere vittima di corvi e sciacalli a mezzo stampa e sostenendo che niente sarebbe successo se il presidente della Repubblica avesse autorizzato D’Ambrosio ad accettare un’intervista con lui. Certo, come no. Il problema è tutto lì, nella mancata confessione dinanzi al Robespierre di carta. Nel mondo di Fatto e Misfatto che si è costruito, Travaglio non vede altro che se stesso riflesso nello specchio, le sue ossessioni, il suo egocentrismo. Ma, come detto, da lui non c’era da aspettarsi altro e dunque la lapide redatta in morte di Loris D’Ambrosio ce la aspettavamo. Un po’ meno scontato è il corsivo di Michele Serra su Repubblica, un tipo che per la sua rubrica si è scelto un titolo che già è un programma di vita: «L’amaca». Anche lui naturalmente vorrebbe fare satira ed essere spiritoso, perché da piccolo devono averlo convinto che più si è spiritosi e più si appare intelligenti. L’uomo, che da poco si é ritirato a coltivar lavanda nel suo podere biologico, alternativo, fuori dall’ottica del sistema, se la prende con Libero e il Giornale per il titolo sulla drammatica fine del consigliere giuridico di Napolitano. A Serra infatti non è andato giù che noi riportassimo le parole del presidente della Repubblica su una campagna di stampa ingiuriosa. Ma come, - ha scritto - proprio loro che hanno praticato un «giornalismo sistematicamente ai confini con la caccia all’uomo? Basterebbe, per tutti, il caso Boffo, a suggerire prudenza a chi l’ha congegnato e messo in pratica». A parte il fatto che Libero non ha mai congegnato né messo in pratica alcunché nei confronti dell’ex direttore dell’Avvenire e dunque l’editorialista di campagna fa un po’ di confusione, Serra dovrebbe essere un po’ più cauto nell’esprimere giudizi. Se infatti per un attimo si fosse sottratto ai lavori agricoli, non si sarebbe occupato del nostro pulpito, ma del suo, ossia del giornale e del gruppo editoriale per cui scrive. Nessuno meglio di Repubblica e dell’Espresso ha condotto campagne di stampa al limite non della caccia all’uomo, ma del linciaggio. Fu Eugenio Scalfari - cioè il fondatore del giornale su cui Serra scrive - a firmare l’appello contro il commissario Luigi Calabresi, un manifesto che insieme agli attacchi di Lotta continua contribuì poi a creare il clima che portò all’omicidio a sangue freddo del funzionario di polizia. Insieme a Scalfari, a sottoscrivere l’invito al linciaggio, non c’era nessuno di Libero, ma tanti editorialisti del gruppo Espresso, a cominciare da Giorgio Bocca per finire a Umberto Eco, passando per Camilla Cederna e tanti altri. Maestri di giornalismo che negli anni Settanta inaugurarono una stagione violenta e ideologica che portò a mettere nel mirino chiunque non facesse parte del loro olimpo culturale e soprattutto non vi si genuflettesse. Dopo Calabresi toccò a Giovanni Leone, presidente della Repubblica che non faceva parte del circolo dell’Espresso e per questo fu costretto da innocente alle dimissioni, da cui non si riprese mai più. Scalfari e la sua banda provarono a far fuori anche Francesco Cossiga, ma con lui andò male, perché l’allora capo dello Stato non era uomo da fuggire di notte. Altri ne seguirono, Berlusconi fra tutti. Il giornalismo partigiano, spregiudicato, la caccia all’uomo scatenata da cronisti ed editorialisti, la persecuzione a mezzo stampa, non sono dunque patrimonio di Libero, ma stanno nel dna di Repubblica e dei suoi compagni. E Serra lo dovrebbe sapere. Forse sarà capace di usare la vanga - ne dubitiamo - e magari anche di far ridere. Ma di affrontare certe questioni proprio no. Meglio che lasci perdere. Si dia una calmata. Si riposi sull’amaca. Non vorremmo che affrontare  cose serie fosse per lui un lavoro troppo faticoso. di Maurizio Belpietro  

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