di Maurizio Belpietro Che fine ha fatto la caccia agli evasori del più sobrio governo di cui l’Italia si sia mai potuta fregiare? Un anno fa, dopo la stangata di Natale, le quotazioni di Mario Monti erano in calo. La botta sulle tredicesime, per quanto propagandata dall’ufficio stampa di Palazzo Chigi, non era piaciuta agli italiani. Quindi, per risalire nei sondaggi, i professori si inventarono la lotta all’evasione. Intendiamoci: non c’è governo che al momento dell’insediamento non prometta di fare la guerra ai furbi che non pagano le tasse. Perché è vero che siamo un Paese un po’ pazzo, ma un premier che si presenti giurando che favorirà i contribuenti infedeli non si è ancora visto. I tecnici dunque, annunciando al Parlamento e agli italiani il loro programma con le misure per scovare chi non versa le imposte, erano nella norma. Ma Monti, per farsi gratis un po’ di propaganda, fece di più: diede il via ai blitz, cioè ai controlli nelle cittadine di vacanza. Cominciò con Cortina, la perla delle Dolomiti e dei ricconi. La conca ampezzana fu cinta d’assedio dagli ispettori del fisco, i quali controllarono i pubblici esercizi ma anche i privati cittadini, chiedendo conto dell’auto condotta e delle ferie in corso. Una mossa che fece vincere a Monti il premio di Robin Hood dell’anno, proiettandolo nell’olimpo della popolarità. Bene: fin qui la cronaca e la pubblicità. Ma passato un anno siamo ai resoconti. E il bilancio finale pubblicato da Libero svela che il dispiegamento di mezzi e la grancassa con cui si è annunciata una lotta senza quartiere non hanno prodotto un euro in più. Anzi: forse uno in meno. Le cifre le ha rese note Salvatore Lampone, cioè il direttore centrale dell’Accertamento, ovvero una specie di vice Befera. Il dirigente del fisco in un’intervista al quotidiano romano Il Messaggero ha annunciato che l’anno si chiuderà più o meno con le stesse entrate da evasione recuperate lo scorso anno, vale a dire poco meno di 13 miliardi. La tolleranza zero dei professori ha fatto incassare allo Stato dunque solo articoli di giornale, ma nessun fondo in più. Che le cose stessero in questo modo a dire il vero lo avevamo sempre sospettato, sin dal giorno dei controlli su strada. Che senso ha mandare pattuglie di ispettori a fermare le auto in circolazione per identificarne i conducenti? Ogni macchina è registrata al Pra e il proprietario ha un nome e un cognome e, presumibilmente, anche un codice fiscale. Cosa ci vuole a interrogare il cervellone del fisco per farsi dire se il fortunato possessore di una Porsche ha una dichiarazione dei redditi che gli consente di godere di una vettura di lusso? Non è necessario fermare i veicoli nei dintorni delle località alla moda: è sufficiente controllare il modello Unico di chi possiede le 600mila supercar a spasso in Italia. Perché dunque non lo si fa? Perché si è insistito con i blitz, la propaganda e gli annunci evitando i controlli telematici? E qui viene il bello e cioè la scoperta di quante sono le centrali di ascolto del fisco, ovvero di quante agenzie di raccolta dati indagano sui contribuenti italiani. Da quanto risulta dall’indagine conoscitiva presentata pochi giorni fa alla Commissione bicamerale sull’anagrafe fiscale, le sole banche dati interne alle amministrazioni fiscali sono 128. A queste si sommano quelle degli enti previdenziali, del Pubblico registro automobilistico e così via. In pratica, centinaia di strutture raccolgono informazioni sulla vita degli italiani. Un Grande fratello registra ogni spesa, ogni investimento e perfino le abitudini dei contribuenti. Una montagna di cifre viene dunque raccolta ogni giorno e archiviata pronta per essere usata nel momento in cui si rendesse necessaria. Come è possibile, si chiederà a questo punto qualcuno di voi, che, con tutto questo dispiegamento di mezzi e invasione della privacy, in Italia non sia ancora stato debellato il fenomeno dell’evasione? Come è spiegabile che i grandi investimenti e le enormi concessioni fatte dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni non abbiano ancora messo in condizioni gli ispettori del fisco di beccare tutti i furbi che le tasse non le pagano? La risposta è semplice e perfino disarmante. Nonostante i mezzi e le leggi, gli evasori continuano ad evadere perché molte di queste banche dati non dialogano fra loro. Le centinaia di uffici che dovrebbero spiare i furbi usano sistemi non compatibili. Non sappiamo se questo sia frutto di una scelta per fingere di dar la caccia a chi non paga oppure della solita sciatteria della pubblica amministrazione. Sta di fatto che l’anagrafe fiscale e la montagna di dati accumulata, ad oggi non consentono di raggiungere il risultato sperato e cioè scoprire gli evasori. La macchina acchiappa furbi è costata molto, ma si sta rivelando un grande bluff. Un po’ come questo governo. Partito per rivoltare l’Italia come un calzino, si è ridotto a rivoltare le frittate. Mario Monti da uomo prestato alla politica è finito in prestito a Pier Ferdinando Casini, con la speranza non di vincere le elezioni, ma di essere richiamato in scena in caso di sconfitta. Il professore che doveva essere il motore del cambiamento se va bene sarà la ruota di scorta di un governo di centro-sinistra guidato da Bersani e sostenuto dall’Udc e dai suoi alleati. E cosa ci sia di tecnico in questa anomala ammucchiata resta ancora da capire.