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Mughini: giocare partita del rigore sul campo

Giovedì la sfida tra Germania e Italia: i tedeschi l'attendono da sei anni
di Andrea Tempestini sabato 30 giugno 2012

4' di lettura

Un importante giornale tedesco ha annunciato la partita di giovedì prossimo tra Germania e Italia con un titolo lievemente minaccioso nei nostri confronti. Sono sei anni che loro tedeschi ci stanno aspettando, che stanno covando la vendetta: adesso è venuto il tempo di saldare i conti. Il riferimento ringhiante (e meno male che si tratta solo di una partita di calcio) è alla partita di semifinale del campionato del mondo del 2006, quello che per giunta si svolgeva in terra tedesca. Li buttammo giù con un secco 2-0 onorato da due magnifici gol di Fabio Grosso e Alex Del Piero. Andammo così in finale dove successe quel che successe, il nostro quarto titolo di campioni del mondo. Scorno grande per i tedeschi padroni di casa, i quali non avevano avuto il benché minimo dubbio che in finale ci sarebbero andati loro a guadagnarsi per la quarta volta il titolo di campioni del mondo. Se è per questo, calcio a parte (una storia dove risalta il 3-1 che rifilammo alla Germania nel 1982 nella finale del Mundial) , i conti tra noi italiani e loro tedeschi sono drammaticamente aperti da oltre un secolo. Dire Germania-Italia non è soltanto dire una partita di football, e meno che mai con questi chiari di luna della moneta comune europea, adesso che sono tantissimi gli italiani (io non sono tra loro) che imputano ai leader politici tedeschi di star trattandoci a pesci in faccia, di conficcare ancor più nella nostra carne viva le spine dei nostri debiti stratosferici, di farci ingoiare medicine che aggravano la malattia e rischiano di uccidere il malato. La Germania-Italia di giovedì prossimo è una partita di calcio, ma è anche molto di più di una partita di calcio.  È sempre stato così tra noi e loro.  A cominciare dalla partita che di per sé è una leggenda, tanto che nello stadio messicano dove la partita si svolse nel giugno 1970 c’è una targa a ricordarla. Quel 4-3 a nostro favore la cui sequenza teatrale fu tale da scuotere gli animi i più ferrei. A causa dello sfalso di fuso orario noi europei quella partita la vedemmo a sera molto tarda. Difficile prender sonno dopo una tale sequela di gol: 1-0 per noi, 1-1, 1-2, 2-2, 3-2, 3-3 a un paio di minuti dal termine, 4-3 per noi un minuto dopo. All’indomani il presidente del Parlamento tedesco interruppe la seduta: «Capisco che i colleghi sono provati da quel che è successo in campo questa notte. Andate a riposare». Detto da un tedesco, eccome se quella non era una rivalsa che noi italiani aspettavamo da molti anni. Da quando erano tedesche le voci e le parole degli ufficiali che comandavano il rastrellamento del ghetto di Roma o le rappresaglie delle Ardeatine e di Marzabotto. Prima ancora, da quando erano tedesche le voci di chi comandava il fuoco delle mitragliatrici su cui si avventavano i fanti italiani della Prima guerra mondiale. Gigi Buffon ha ricordato che due dei suoi nonni sono caduti in quelle battaglie, battaglie in cui ne morivano a migliaia pur di conquistare cento metri di terreno di montagna. In suo recentissimo libro Luisa Muraro, una delle intellettuali che hanno fondato la storia del femminismo in Italia, ha ricordato un suo parente sopravvissuto alla guerra delle trincee ma che non riusciva più a dormire perché gli erano rimaste come conficcate in testa le urla dei suoi compagni che stavano agonizzando nel groviglio di filo spinato delle trincee difese da austriaci e tedeschi. Quell’Italia-Germania 4-3 fu la partita giusta al momento giusto, una partita che fece da rivalsa. In un momento in cui i ricordi di cui sto dicendo erano ancora molto caldi. Io ho avuto il tempo di vedere il fratello di mio nonno sulla sua sedia a rotelle, lui che durante la Prima guerra mondiale era un ufficiale medico di prima linea e che aveva strisciato oltre la sua trincea per prestare soccorso a dei soldati italiani feriti. Una pallottola gli spezzò la colonna vertebrale e passò in carrozzella i restanti trent’anni della sua vita. E poi c’era che noi avevamo una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dei tedeschi. Quando ne eravamo stati sciaguratamente alleati, loro le battaglie le vincevano, noi mai. In Grecia dovemmo chiedere il loro aiuto perché non riuscivamo ad avanzare di un metro. Quando arrivammo all’ignominia di attaccare alle spalle una Francia che era stata già schiantata dai panzer, e anche quella volta non riuscivamo ad avanzare di un metro, Mussolini chiese a Hitler di pracadutare sue truppe alle spalle dei francesi per venire in soccorso al nostro fallito assalto. L’alto comando della Wermacht ritenne che un tale gesto sarebbe stato disonorevole per i tedeschi e si rifiutò.  A completare il nostro complesso di inferiorità c’era il fatto che i ventenni italiani degli anni Quaranta e Cinquanta erano fisicamente miserevoli rispetto alla media dei tedeschi. Il grande Gianni Brera usava l’espressione «italianuzzi», e che dovevamo giocare di astuzia e di velocità per riuscire a competere con quegli omoni dei tedeschi. Da cui la teorizzazione del «catenaccio» con tutti i suoi annessi e connessi. Da cui l’orgoglio della volta che li buttammo giù, in Messico, con l’«abatino» Gianni Rivera che mette dentro -  di finezza e di intelligenza  - la palla decisiva. Alla faccia dei crucchi. Beninteso sto raccontando tutto questo in uno spirito di amicizia e di ammirazione per una grande nazione europea quale la Germania. Giovedì prossimo è solo una partita di calcio. Vinca il migliore. La vincessimo noi, questo non abbatterà di un euro il nostro debito pubblico, e con tutto ciò sarebbe una gioia da ricordarsela per tutta la vita. di Giampiero Mughini    

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