Ieri l’altro ce l’eravamo spassata con i quirinalisti dei principali giornali, i quali, anziché chiedere a Giorgio Napolitano se fossero vere le anticipazioni di Panorama e gli insulti ai pm di Palermo - come sarebbe stato loro dovere fare - si occupavano di informarci del turbamento del capo dello Stato in seguito alla pubblicazione delle notizie che lo riguardavano. Ieri invece lo spasso ci è stato assicurato dai titolisti, in particolare da quelli de La Stampa e il Messaggero. Il quotidiano subalpino e quello romano giovedì si erano distinti per aver nascosto lo scoop del settimanale mondadoriano: né in prima pagina né altrove vi era cenno all’inchiesta sul contenuto delle telefonate presidenziali intercettate dalla Procura di Palermo. Per i lettori piemontesi e per quelli della Capitale il «ricatto» al capo dello Stato denunciato dal periodico guidato da Giorgio Mulé era dunque ignoto. Ma, dopo aver celato la notizia il giorno prima, ecco invece Mario Calabresi e Mario Orfeo - direttori dei due prestigiosi organi di stampa - reagire come corazzieri di complemento alle parole del presidente, titolando come un sol uomo contro il ricatto. Le due antiche testate coraggiosamente davano voce al Quirinale col titolo più importante della prima pagina, respingendo le «torbide manovre» cui aveva fatto cenno Panorama. Certo, i lettori hanno fatto qualche fatica a raccapezzarsi e capire di che cosa si stesse parlando, dato che si erano persi la puntata precedente. Ma in fondo non sono le notizie ad essere importanti, bensì le smentite e quelle la libera stampa non se le fa scappare mai. E a proposito di fughe, ma dalla realtà, interessante anche il pezzo del direttore di Repubblica, scuola di giornalismo a cui si sono abbeverati anche i due Mario che abbiamo citato in precedenza: è lì che hanno imparato a tenere la schiena ritta e la penna nel taschino. Ezio Mauro, nel suo editoriale formato twitter, scrive di un settimanale ideologico (Panorama? Ma non era accusato un tempo di mettere troppe tette in copertina? Forse si tratta di ideologia delle poppe) che è arrivato, parlando delle conversazioni del capo dello Stato, a pubblicare ipotesi, illazioni e allusioni. Immagino che per il numero uno del quotidiano radical chic questo sia un abominio. Qui trasparenza, libertà e verità non c’entrano nulla, sentenzia il capo di Repubblica. Ammettiamo per un attimo che Mauro abbia ragione e che la ricostruzione di Panorama non sia fondata su riscontri seri, cosa difficile da ipotizzare in quanto, come abbiamo spiegato ieri, se così fosse la Procura di Palermo non indagherebbe per fuga di notizie e Nicola Mancino avrebbe immediatamente smentito il contenuto delle intercettazioni, cosa che invece non ha fatto. Ma ammettendo in via ipotetica che il settimanale abbia rifilato ai suoi lettori una bufala, mettendo insieme solo ipotesi e allusioni, il primo che dovrebbe genuflettersi e recitare il mea culpa sarebbe proprio il direttore di Repubblica. Il primo a evocare che cosa ci potesse essere nelle famose conversazioni telefoniche del presidente è infatti stato proprio lui. Quando ancora tutti brancolavano nel buio, chiedendosi che cosa ci fosse di tanto segreto nelle conversazioni tra Napolitano e Mancino, per sciogliersi dall’imbarazzo in cui lo avevano messo due dei suoi più autorevoli editorialisti, Scalfari e Zagrebelski, Mauro se ne uscì con un’ipotesi di scuola. «Quante telefonate avrà dovuto fare il capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Berlusconi da Palazzo Chigi?», si chiese il numero uno del quotidiano debenedettiano. E via con le ipotesi sulle conversazioni imbarazzanti. Capito? L’uomo che denuncia l’uso delle ipotesi e accusa Panorama di aver dato corpo alle voci sugli insulti ai magistrati di Palermo e a Berlusconi, fu il primo a fare un’ipotesi astratta, con cui metteva il dito nella piaga delle chiacchiere quirinalizie. Il primo a dire che Napolitano in quei giorni poteva essersi lasciato scappare qualcosa sul Cavaliere. Ma Mauro non fa solo questo. Nel suo mini editoriale non tenta solo di impedire ad altri ciò che lui ha messo in pratica, ma si dedica anche ad un’altra sua specialità, ovvero salvare i sepolcri imbiancati, quei nomi altisonanti, ammantati di un’aura di intoccabilità costruita con pazienza nella prima Repubblica. È a loro che sono dedicate le ultime parole del suo articolo, contro «chi dipinge la nostra democrazia come un sistema marcio dal suo vertice fino alla base». Una difesa dei vertici dello Stato che benedirono la trattativa con la mafia, gli uomini delle istituzioni repubblicane che per anni ci hanno fatto la predica. Sono loro che il direttore di Repubblica vuol mettere al riparo. Presidenti della Repubblica, ministri, gran commis dello Stato: una nomenclatura tanto cara al giornale della sinistra chic. Per anni il malaffare è stato prerogativa berlusconiana. Ma l’inchiesta di Palermo ha fatto esplodere tutte le contraddizioni del fronte antimafia. Gli oscuri segreti non li aveva sotto il letto il Cavaliere, ma qualche padre della patria. Di qui l’imbarazzo dei corazzieri della stampa, costretti a montare la guardia a difesa dei Palazzi del potere. Che spasso. di Maurizio Belpietro