Mughini: Telecom, Alitalia & Co, siamo diventati un Paese da piangere

Siamo superati da tutti, abbiamo perso i nostri tesori, eppure a Roma si dannano per un posto
di Giulio Bucchidomenica 29 settembre 2013
Mughini: Telecom, Alitalia & Co, siamo diventati un Paese da piangere
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Ad ascoltare il telegiornale di martedì sera, a me è venuto da piangere. Lacrime vere, di quelle che scorrono lungo le guance. Non lo dico per retorica, lo dico da italiano che ama il suo Paese e lo vede affondare giorno dopo giorno e questo mentre nella nostra politica imperversano gli schiamazzi vacui di tutti contro tutti, la gran corrida dei dilettanti allo sbaraglio.  Il nostro Paese che affonda in termini di competitività e rilevanza internazionale, e stiamo per vendere o svendere (“per un piatto di lenticchie”) marchi famosi al tempo della Ricostruzione del dopoguerra. E in fatto di produttività del nostro lavoro industriale siamo precipitati al cinquantesimo posto nel mondo, ed è un fuggi fuggi generale di imprese e talenti italiani che cercano altrove di che fare e campare pur di sottrarsi ai due record italiani del terzo millennio, la burocrazia e il fisco. Un Paese che affonda, se non è da lacrime tutto questo. E non è vero affatto che stiamo finalmente vedendo della luce laggiù, in fondo al tunnel. Lo aveva già detto Mario Monti a fine 2012, ed è la cosa che meno gli perdono, io che pure alle ultime elezioni l’ho votato. Non c’era nessuna luce in quel fine 2012, e da allora il patatrac della nostra economia è stato il più drammatico nella storia recente d’Italia. E non è detto che il peggio sia alle nostre spalle. Giorni fa è venuto a casa mia un artigiano che è un piccolo imprenditore (sette-otto stipendi al mese da pagare) che di lavori in questi ultimi dieci anni ne ha fatti tanti per la mia casa. «Un altro anno così, e chiudiamo tutti», mi ha detto. Di lavoro ne ha poco, quel poco che ha glielo pagano alle calende greche, nel frattempo i costi cui produrre quel suo poco lavoro si inerpicano ogni giorno di più, e per giunta si ritrova di fronte dei piccoli imprenditori cinesi che offrono la sua stessa merce a prezzi più bassi. Più ancora che le sue parole, era la sua faccia che raccontava il dramma: e mi pare che anche lui fosse vicino alle lacrime. Luce in fondo al tunnel? Un’economista italiana assai aguzza, Lucrezia Reichlin, ha scritto qualche giorno fa un editoriale di prima pagina del Corriere della Sera dove diceva che non una delle cause di fondo della crisi della nostra economia è stata benché minimamente corretta. Nessuna. Di cuneo fiscale, ossia dell’aberrante sproporzione tra quanto viene in tasca a un lavoratore italiano dipendente e quanto sborsa nella sua interezza l’imprenditore che lo paga ce ne lamentiamo da almeno trent’anni. Trent’anni durante i quali neppure un centesimo di quella sproporzione è stato scalfito. La Confindustria, e ha ragionissima, lo dice a voce alta che quel cuneo ammazza le imprese italiane quando concorrono con quelle europee. Ebbene un intervento appena decente su quel cuneo, ossia il lasciare nelle tasche di ciascun lavoratore dipendente qualcosina degli euro succhiati dallo Stato, peserebbe sul bilancio pubblico tipo 50 miliardi annui, altro che il non aver fatto pagare la prima rata dell’Imu sulla casa di abitazione. 50 miliardi, da dove cavarli fuori? Mah. E allora di che stiamo parlando e a parte il fare rumore con la bocca? La Telecom, la nostra compagnia telefonica fondamentale, va a questuare i soldi di che continuare a vivere agli spagnoli, che pure non se la stanno spassando. Peggio ancora il gran manager a capo della Telecom dice che non ne sapeva nulla di tutto questo maremoto, roba che se l’avesse fatta Maurizio Crozza in una delle sue imitazioni avremmo pensato che stava esagerando. Se l’Air France non ci fa il regalo natalizio di comprarsi l’Alitalia per un prezzaccio, gli aerei della nostra compagnia di bandiera rischiano di non decollare più da Fiumicino e da Linate. E dire che la nostra penisola passava una volta come la portaerei d’Europa, un passaggio cruciale per i voli da Ovest verso Est e verso Sud. In nome dell’“italianità” il presidente Silvio Berlusconi volle stoppare la vendita dell’Alitalia ai francesi cinque anni fa. Purtroppo in termini reali la difesa e la conclamazione di quell’italianità non aveva alcuna base industriale di fatto. Gli imprenditori italiani che se ne sono fatti carico ci hanno rimesso le anche e le patanche, cinque miliardi buoni di euro. L’Italia non è un Paese per aerei che si alzano in volo a trasportare passeggeri, almeno così sembra. Ma che Paese è allora il nostro? Manca poco, e se va a fondo l’Ilva non avremo più un comparto siderurgico. Che ci resta quale nostro marchio da produrre e vendere al mondo, la pizza, le scarpe, il Colosseo? Noi che figuravamo negli Ottanta come la quinta potenza industriale del mondo.  Sì, a me viene da piangere. Non so a voi, spero di sì. E in uno scenario come questo, che ne pensate delle baruffe tra Matteo Renzi e Enrico Letta e dunque dell’entusiasmante appuntamento costituito dalle “primarie” del Pd, oppure del duello all’ultima mossa di kung-fu tra Daniela Santanchè e Angelino Alfano a chi sarà il leader della nuova Forza Italia. Scegliete voi se c’è da ridere o da piangere. Voi che avete dei figli e dei nipoti. di Giampiero Mughini