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Selvaggia Lucarelli: "Commesse, non vi odio più..."

di Ignazio Stagno domenica 25 maggio 2014

4' di lettura

«Buongiorno, desidera qualcosa?». «Posso esserle utile?». «Sta cercando qualcosa in particolare?». «La posso aiutare?». «Se ha bisogno di qualcosa chieda pure». «Vuole una mano?». Quante volte siamo entrati in un negozio e abbiamo provato la tentazione di rivolgerci al centro anti-stalking dopo dieci minuti di pressioni ininterrotte e moleste di commesse e commessi addestrati a vampirizzare il cliente? Tante, troppe. Uno se ne sta lì, vorrebbe solo pasticciarsi la mano con tutta la gamma di rossetti no transfert o guardare i costumi indisturbata sognando di entrare nel trikini di Gisele, e arriva la commessa a metterti l’ansia. E se replichi «no grazie», ti guarda, ti scruta, ti segue di scaffale in scaffale e tu allora prendi il campione di fard e lo impugni a mezz’aria per dimostrare che non lo stai rubando, perché dopo mezz’ora di pedinamento anche un cittadino onesto si sente un componente della banda della Magliana. Le abbiamo detestate nel profondo dell’anima le commesse così, diciamolo. Eppure, pochi sanno che la maggior parte di queste povere ragazze è semplicemente addestrata per farlo e se non lo fa con la giusta insistenza si ritrova ben presto a insistere con qualcuno per ottenere un lavoro. Si chiama “aggressive hospitality” ed è la strategia di vendita adottata da molte catene di negozi convinte che il pressing sul cliente sia un sistema infallibile per incrementare le vendite. La catena Kiko (multinazionale di cosmetici a basso costo con 500 negozi in tutto il mondo) è un esempio lampante di cosa significhi educare le commesse a seppellire il cliente di offerte d’aiuto e di prodotti imperdibili. Entri da Kiko e sai già che qualcuno ti verrà incontro per chiederti se hai bisogno di una mano. Sai che alla cassa ti chiederanno se hai bisogno anche di dischetti, di struccanti, di piegaciglia, di profumi, di creme, di burrocacao (tecnica definita cross selling, ovvero vendita incrociata di altri prodotti collegati al prodotto acquistato inizialmente). Poi ti chiedono se sai che la nuova collezione estate è in offerta, se hai visto il blush a metà prezzo, se ti serve anche la cipria. E l’approccio è anche da Sephora, Motivi, Geox, Foot Locker e in molte altre catene, in cui se non esci senza aver comprato qualcosa ti porti il senso di colpa fino alla tomba. Marta, un’ex commessa di Kiko spiega come stanno le cose: «Quando ti assumono ti spiegano che tutti i mesi va raggiunto un certo tetto di incasso. Per raggiungerlo bisogna spingere perché su ogni scontrino vengano battuti almeno tre prodotti». Se alla fine del mese quel tetto minimo di incasso non viene raggiunto, ti suggeriscono più o meno velatamente che è bene che le commesse facciano qualche acquisto per se stesse in modo che si ottenga quella cifra di incasso. Nessuno ci obbliga, ma ci invitano a comprare. Il pressing che subiamo è molto forte e a nessuna di noi piace insistere col cliente, ma è la politica che ci insegnano e se non la adottiamo per loro non facciamo bene il nostro lavoro, quindi rischiamo il posto». Capito? Se non vendono, sono invitate a comprare. Anche entrando da Foot locker, la catena americana di negozi specializzata nella vendita di accessori sportivi, la sensazione che i commessi siano educati a una strategia di vendita piuttosto aggressiva è decisamente forte. Non si fa in tempo a varcare la soglia del negozio che un grazioso ragazzo in tenuta da arbitro ci chiede cosa desideriamo, chi siamo, dove andiamo, per chi voteremo e se crediamo a una vita dopo la morte. Frankie, ex commesso di Foot Locker a Roma, racconta così la sua esperienza: «Quando arrivi lì ti dicono che bisogna sempre sorridere e mantenere una posizione fissa: spalle alla parete di scarpe e sguardo rivolto verso i clienti. Appena un cliente entra nel negozio dobbiamo tentare l’approccio col classico «Le occorre qualcosa?» e se chiede le scarpe noi dobbiamo tentare di vendere anche gli accessori come solette e calzini, perché i maggiori ricavi l’azienda li ottiene dalla vendita di quei prodotti». Cristina Chieti, formatore manageriale per Gdo, non ritiene che questo genere di formazione sia la più proficua. «Durante i miei corsi di formazione del personale che poi dovrà relazionarsi con il cliente, dico sempre che non esiste un approccio standard col cliente, ma bisogna adattarlo alla persona che si ha davanti, altrimenti si è artificiosi, poco empatici o inutilmente aggressivi. Esistono quattro tipi di acquisti e di clienti: quello relazionale, tipico del cliente che nella commessa vede se stesso e ha bisogno del sorriso in più. Quello analitico, tipico di chi conosce già il prodotto e vuole solo essere certo che sia come se lo aspettava, che ha bisogno di dati tecnici. Quello pratico, che entra e va dritto all'obiettivo, e che ha solo bisogno di una persona diretta e quello “creativo”, che è il cliente che ha bisogno di sentirsi diverso, che vuole la novità e ha bisogno di una persona propositiva e stimolante davanti a sé. Il commesso è una sorta di psicologo, non deve essere un mulo che recita la formuletta o assalire il cliente appena varca la soglia del negozio, ma deve utilizzare sempre strumenti diversi in base a chi si trova di fronte». Insomma, non è detto che la politica aggressiva sia sempre proficua. Io, personalmente, al secondo «le serve qualcosa?», mi sono sempre diretta altrove, dando la colpa alle commesse. Ma ora che so come stanno le cose, mi limiterò a rispondere «No, a me no, ma a lei servirebbe un formatore che insegni cos’è l’empatia, non la persecuzione». Il tutto, sorridendo. Perché diciamolo: povere commesse. di Selvaggia Lucarelli

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