Perché i manettari temono di fottere Berlusconi

di Maurizio Belpietrodomenica 20 luglio 2014
Perché i manettari temono di fottere Berlusconi
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Si avvicina l’ora della sentenza nel processo d’appello a Silvio Berlusconi per il cosiddetto caso Ruby: il verdetto infatti è atteso per domani. Ma più si avvicina l’ora e con essa la possibilità di una conferma della condanna a sette anni di carcere, più si infittiscono i dubbi su una vicenda dai contorni incerti. Martedì è stata la volta degli avvocati difensori, i quali hanno smontato pezzo dopo pezzo l’impianto accusatorio della Procura, cominciando proprio dalla famosa telefonata. Come è noto, il processo che potrebbe mettere la parola fine alla carriera politica del Cavaliere, consegnandolo per i prossimi dieci anni agli arresti domiciliari, si basa tutto sulla chiamata alla Questura di Milano. L’allora presidente del Consiglio contattò un funzionario della polizia suggerendo cautela a proposito del fermo di Ruby. Berlusconi disse che la ragazza era nipote del rais egiziano Mubarak e invitò gli uomini in divisa ad affidare la giovane a Nicole Minetti, consigliere regionale del Pdl. Per la Procura la telefonata è la prova della concussione, per il Tribunale che lo ha condannato a sei anni (il settimo gli è stato appioppato per induzione alla prostituzione minorile) documenta la costrizione. Come si possa aver costretto un funzionario di polizia che nega di esserlo stato è un mistero. Tanto è vero che l’avvocato del Cavaliere, Franco Coppi, lo stesso che salvò Andreotti dalle condanne per mafia e omicidio, ha puntato il dito sulla macroscopica incongruenza. Clicca e leggi l'editoriale di Maurizio Belpietro in versione pdf