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Addio a Gabriel Garcia Marquez, l'ultimo giorno di solitudine di un romanziere politico

di Nicoletta Orlandi Posti domenica 20 aprile 2014

4' di lettura

È morto Gabriel García Márquez, il più grande scrittore, con Mario Vargas Llosa, di quella composita galassia che va sotto il nome di letteratura latino-americana. Era nato il 6 marzo 1927 a Aracataca, Colombia, figlio di un farmacista. Venne cresciuto dai nonni materni. Il nonno fu per lui una figura leggendaria, il Colonnello Nicolás Ricardo Márquez Mejía, che osteggiò duramente il matrimonio tra i suoi genitori. Come altri grandi scrittori Márquez fu un autodidatta, lasciò la facoltà di legge per dedicarsi prima al giornalismo, con una rubrica satirica sotto lo pseudonimo di Septimus presso il quotidiano colombiano El Heraldo, dove era pagato tre pesos a pezzo, e poi al El Espectador di Bogotà. Nel frattempo divorava i classici della letteratura europea e americana, soprattutto i cosiddetti modernisti, Virginia Woolf, William Faulkner, traendo dalla prima l’arte e la cura del dettaglio epifanico, rivelatore, dei simboli che parlano la lingua dell’inconscio, e dal secondo la potenza dell’epica e l’incrociarsi dei punti di vista. Questa scomposizione del reale, più ancora che le ambientazioni esotiche, definiscono quella caratteristica stilistica che lo ha sempre inseguito fino quasi a imprigionarlo: il realismo magico. Ma per il suo capolavoro, Cent’anni di solitudine, pubblicato nel 1967 e scritto sotto notevoli ristrettezze economiche, Márquez si rivolse alla sua infanzia, alla casa dei nonni nella quale era cresciuto. Fin dalla sua uscita ritenuto un capolavoro, l’ambiziosissima saga dei Buendía, fondatori della città di Macondo, raccontata di nuovo con la tecnica dei molteplici punti di vista appresa da Faulkner e dal suo unico maestro latino-americano, Jorge Luis Borges, fu un enorme successo commerciale (oltre venti milioni di copie vendute, traduzioni in 37 lingue) anche se lo stesso Márquez, a distanza di anni, con una punta di civetteria commentò che «Cent’anni di solitudine è un po’ uno scherzo, pieno di cenni e allusioni ai miei amici più stretti». Ma la chiave della decodificazione di tali rimandi Márquez non la rivelò mai, divertendosi a leggere i critici che continuavano a descrivere la sua opera come un romanzo di fondazione di una storia mitica, citando addirittura la Genesi biblica, e altri che tentavano di indovinare la vera identità dei Buendía prendendo solenni cantonate. Dopo quel primo exploit, seguirono altri romanzi di vasto successo: l’Autunno del patriarca (1975), Cronaca di una morte annunciata (1981), L’amore al tempo del colera (1985), Notizia di un sequestro (1986), senza mai superare né il successo né la forza espressiva e affabulatoria dell'esordio, che fu determinante per il premio Nobel per la letteratura nel 1982. Dal 1999 Gabriel Garcia Márquez soffriva di un cancro al sistema linfatico, e quando si riprese dopo i primi cicli di chemioterapia in un ospedale di Los Angeles, Márquez scrisse così all’inizio delle sue memorie: «Ho ridotto i rapporti con i miei amici al minimo, staccato il telefono, cancellato ogni viaggio e annullato ogni genere di progetto per il futuro. Ora non farò altro che rinchiudermi per scrivere tutto il giorno». E nel 2002 pubblicò Vivere per raccontarla, primo volume di una pianificata trilogia di memorie, in cui di nuovo riandava all’infanzia, a quell’indimenticabile casa di proprietà del nonno Colonnello. Doveva essere la sua ultima opera. Nel 2005 dichiarò che quello era stato il primo anno della sua vita in cui non aveva scritto nemmeno una riga. «Con la mia esperienza», disse, «potrei scrivere un nuovo romanzo senza problemi, ma la gente si accorgerebbe che non ci ho messo il cuore». E del resto cos’altro avrebbe potuto aggiungere? La pianificata serie di libri biografici si fermò al primo volume perché solo l’infanzia fu per Márquez l'età della vita significativa. Il resto fu un disciplinato, rigoroso e talora routinario mettere a fuoco quanto da quell’inesauribile riserva di racconti, memorie, leggende e dicerie aveva ricavato. Non è un caso che egli stesso ammise di sviluppare i suoi romanzi da «immagini visuali», cosa che del resto tornò utile ai molti registi che adattarono per il cinema i suoi libri. Il declino e la spossatezza degli ultimi anni fu aggravato dalla diagnosi, nel 2012, del morbo di Alzheimer, e infine, qualche settimana fa, il ricovero in Messico per un’infezione ai polmoni e alle vie urinarie. Nella tarda serata di ieri l'annuncio della morte. Assodata la fama, meritata, in vita, ora sarà il tempo a dire se quello che fu lo scrittore latino-americano più popolare sarà anche il più grande, o più modestamente un abile e scaltro utilizzatore di tecniche che i suoi maestri Borges e Faulkner avevano già esaurito al meglio. Resterebbe da dire delle sue simpatie politiche per Castro, al quale pare mostrasse i suoi manoscritti prima di mandarli in stampa. E i tentennamenti di fronte a Chavez, descritto in una famosa intervista come per metà «il salvatore del Venezuela» e per metà «un despota tra tanti». Ma i grandi scrittori, si sa, in politica sono di un’ingenuità inarrivabile. di Giordano Tedoldi

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