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Pansa: Dai bordelli proletari nacque il Reich di Renzi

di Giulio Bucchi domenica 8 novembre 2015

6' di lettura

Si è rivelato un buon profeta chi aveva detto: «La crisi globale cambierà anche la faccia dell’Italia. Pure in casa nostra accadranno eventi che nessuno si aspetta. Ci troveremo alle prese con novità folgoranti». La prima si vide in un territorio dove non accadeva mai niente: l’Emilia Romagna. La regione rossa per eccellenza si era sempre trovata sotto l’imperio del Pci. Un regime soffice che aveva garantito a tutti un’economia florida e una buona amministrazione. In cambio era stato soffocato qualunque dissenso. «È la democrazia del tortellino» si diceva. Sembrò andare così anche quando il Pci scomparve. Gli eredi si frantumarono in tanti partiti, che andavano dalla sinistra di Nichi Vendola alla destra democratica di Matteo Renzi. Tutta la regione seguitò a dormire con la pancia piena. Sino all’aprile del 2016, allorché accadde l’imprevedibile. Qualcuno convinto di essere un comunista vero, dunque un rivoluzionario, fomentò una ribellione destinata a sfociare in un repubblica comunista. A guidare la rivolta era una donna sui quarant’anni: Aida Zamboni. Nata a Carpi, ancora nubile, era una virago capace di tutto. Per cominciare aveva un aspetto da brunaccia sensuale, con un petto straripante, il lato B contenuto a fatica dai jeans e soprattutto i modi da teppista vogliosa di maschi. Appariva più giovane poiché aveva insegnato a lungo educazione fisica nelle scuole medie e infine era riuscita ad aprire una palestra. Dove la prima a tenersi in forma era lei. A Bologna l’Aida era molto conosciuta anche per il frenetico attivismo politico. Dopo aver militato nel vecchio Pci, era passata a Rifondazione comunista e di qui aveva fatto il balzo nei movimenti antagonisti. Era stato allora che il suo fanatismo rosso si era rivelato del tutto. Grazie anche all’incontro con un uomo diventato il suo amante numero uno. Si chiamava Amedeo Bandiera, un trentenne lungo e magro, sempre accigliato, il tipo del rivoluzionario freddo. Giornalista free lance di scarsa fortuna, si era improvvisato ideologo e uomo d’azione. Aveva elaborato un programma eversivo che lui definiva con uno slogan: «Ribellarsi e andarsene». Il Bandiera cominciò a spiegarsi in una serie di scritti pubblicati sui giornaletti dei centri sociali e delle frange rosse più lunatiche. La ribellione era contro lo Stato capitalista. L’andarsene, ossia il separatismo, riguardava la Repubblica italiana. Bisognava abbandonarla al suo declino e farne nascere una nuova nell’area centrale del Paese: l’Emilia Romagna, le Marche, l’Umbria e la Toscana. Era un programma destinato a restare nella testa balzana del Bandiera se non fosse stato per l’Aida Zamboni. Fu lei a intuire che per realizzarlo bisognava avere due carte da giocare. La prima era di garantirsi la copertura di qualche papavero della sinistra tradizionale. Offrì la guida del Soviet a Nichi Vendola, poi a Stefano Fassina, quindi a Pierluigi Bersani e a Corradino Mineo. Tutti risposero picche. L’unico che si offrì di patrocinare la rivolta fu Denis Verdini, sostenendo di essere un rosso. Ma l’Aida lo derise: «Se tu sei un rosso, io sono l’amante di papa Bergoglio!». Allora la Zamboni giocò la carta più sicura: mobilitare i giovani e i giovanissimi. Erano loro i più disposti a scatenarsi perché, a differenza degli adulti, non avevano nulla da perdere. Le classi dominanti gli avevano rubato il futuro? Se era così, dovevano costruirsene uno nuovo, rivoluzionario, fondato su un Soviet, identico a quelli creati da Lenin in Russia quasi un secolo prima. Ma anche l’intuizione dell’Aida non avrebbe prodotto il caos che poi riuscì a creare se lei non si fosse domandata che cosa cercassero i giovani. La risposta fu immediata: sfogare l’energia sessuale sulle donne disposte a soddisfarli. La Zamboni cominciò a offrirsi ai militanti più scaldati. Poi nel constatare che la truppa del Soviet cresceva a vista d’occhio, arruolò un gran numero di prostitute raccolte sulla strada. Con loro costituì i Centri dell’amore proletario, dove la gioventù ribelle avrebbe potuto festeggiare gratis. I fondi necessari vennero reperiti con una serie di rapine negli istituti di credito. Le incursioni furono affidate a una squadra speciale di collaudati delinquenti. Comandati da un cugino dell’ideologo Bandiera: un quarantenne romagnolo di Forlimpopoli, che era già stato in galera. L’insieme sembrava una mascherata di Carnevale destinata a finire nel nulla in poco tempo. Ma la debolezza delle istituzioni statali la trasformò in un affare ben più serio. Dall’Emilia Romagna la ribellione dilagò nelle regioni confinanti. Attecchì anche in Toscana, nell’area di Livorno, dove si scatenarono gli ultrà del calcio. A Prato i tanti cinesi presenti da anni nella zona e sfruttati dai connazionali ricchi diedero vita a una Comune maoista. L’Aida divenne il simbolo della rivolta proletaria. Ma aveva il suo da fare con i Centri dell’amore. La direzione strategica della ribellione passò dunque al Bandiera. Costui si era montato la testa, convinto di essere un nuovo Lenin. E fece il passo più lungo della gamba. Alla fine del luglio 2016 le truppe del Soviet erano sempre più scatenate. Bandiera gli ordinò di attaccare le prefetture, le questure e i comandi dei carabinieri di tre regioni. Le forze dell’ordine furono colte di sorpresa e del tutto impreparate. Un po’ dovunque il tricolore venne ammainato e sostituito da un vessillo rosso con una A al centro, quella di Aida. A quel punto il terzo governo Renzi, dopo aver lasciato marcire la situazione, decise di reagire. Per evitare conflitti sanguinosi, l’intervento fu affidato ai servizi di sicurezza, appoggiati da consulenti americani della Cia. Come primo passo venne catturato il Bandiera. Prenderlo fu un gioco da ragazzi, perché si era insediato a Palazzo d’Accursio, il municipio di Bologna, dopo aver dato lo sfratto a Virginio Merola,il sindaco democratico. Trovarono il Bandiera pieno di soldi, le tangenti che molte aziende gli versavano. I servizi segreti non ci misero molto a convincerlo a parlare. Lo minacciarono di farlo sparire nel carcere di Guantanamo, come un talebano qualunque, e lui vuotò il sacco. Rivelò che la Zamboni si trovava in una grande tenuta agricola vicino a Cesena, dove aveva stabilito il migliore dei suoi bordelli. L’Aida venne scovata lì, mentre si trastullava con due ragazzotti. I corpi speciali si trovarono di fronte a una tigre pronta a sbranarli. Furono costretti a sedarla con una iniezione. Al risveglio, l’Aida si rese conto di essere nuda e legata a una sedia. Davanti a lei c’erano due funzionari dei servizi, accompagnati da un agente della Cia che parlava bene l’italiano. Lei gridò: «Volete torturarmi come se fossi una del Califfato nero? Fatelo pure, ma non vi dirò mai nulla sugli eroi che volevano creare con me il Soviet comunista!». Allora si limitarono a elencarle i reati che aveva commesso. E le spiegarono che sarebbe stata condannata a molti anni di carcere duro. Aggiunsero che poteva scamparla soltanto a una condizione: confessare tutto sul Soviet e indicare i nomi dei giovani che aveva contattato. L’Aida era sempre stata una donna pratica e chiese: «Che cosa riceverò in cambio?». Le risposero che il governo Renzi le avrebbe offerto un passaporto per l’America centrale e una somma sufficiente per stabilirsi lì. La Zamboni domandò: «E il Bandiera? Potrà lasciare l’Italia insieme a me?». «No, lui resterà in carcere». La reazione dell’Aida li sorprese: «Meglio così. Con tutte le sue menate sul separatismo mi era venuto a noia». Il racconto della Zamboni ai servizi segreti durò due giorni. Fu una confessione stupefacente e al tempo stesso bugiarda. Sostenne che a incoraggiarla non erano stati soltanto i superstiti del Pci, ma pure big della maggioranza di Renzi, in disaccordo con il premier. Il reggiano Del Rio, il ferrarese Franceschini, la Orlandi dell’Agenzia delle entrate, il sottosegretario Zanetti, il siciliano Crocetta, Ignazio Marino e il suo finto avversario Orfini. Questo consentì al premier un’epurazione totalitaria. La maggioranza divenne più compatta. I posti da ministro andarono soltanto a donne poco più che maggiorenni. Persino la mitica Maria Elena Boschi perse l’incarico e fu spedita al Poligrafico dello Stato con l’ordine di creare una moneta da un euro con l’effige di Matteo Primo. Due settimane dopo, l’Aida ottenne quanto le era stato promesso. Al momento di partire per il Nicaragua, un funzionario dei servizi le chiese: «Non le pesa di aver tradito tanti dei suoi giovani seguaci?». L’Aida era ritornata a essere una quarantenne sfacciata e arrogante. Replicò: «Pentita? Per niente. La mia regola è sempre stata una sola: proteggi il tuo culo, non quello degli altri». di Giampaolo Pansa

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