La vicenda di Yara ha ufficializzato il rapporto tra la celebrità di un caso giudiziario e lo sforzo profuso per risolverlo. Si dirà che è sempre stato così, che è normale: ma forse così abnorme non era stato mai. Giornali e televisioni ne hanno fatto un caso talmente percussivo da spingere le forze dell'ordine a un dispendio di mezzi che solo il clamore avrebbe potuto giustificare, e che senza la pressione dell'opinione pubblica avremmo visto soltanto nei telefilm. Dal 2010 abbiamo saputo di battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, intercettazioni, rilevazioni satellitari, georadar, sensitivi, testimoni fatti tornare dal Centro America, 18mila campioni di Dna prelevati, e una spesa - pare - che si aggira attorno ai tre milioni di euro. Il risultato è giunto, l'impegno è stato ammirevole. Eppure - già lo scrissi - il pensiero torna ai genitori di bambini egualmente scomparsi ma che un caso mediatico non lo sono diventati mai: basta andare sul sito del ministero dell'Interno per accorgersi di quanti siano. Dovremmo sperare di non essere in compagnia di questi genitori mentre guardavano il telegiornale - l'altra sera - e apprendevano dell'ammirevole solerzia dedicata a una bambina che non era la loro. Perché, nei casi di cronaca, siamo noi giornalisti a plasmare l'opinione pubblica: non viceversa. Siamo noi giornalisti a decidere che Yara meritava, e altri meno. di Filippo Facci