C’è una Shoah da «seconda generazione»

In un graphic novel di Michel Kichka la sindrome che spinge al suicidio quegli ebrei che hanno vissuto il dramma dell’Olocausto solo attraverso gli incubi dei propri padri
di Ignazio Stagnodomenica 26 gennaio 2014
C’è una Shoah da «seconda generazione»
3' di lettura

Si raccomanda la madre, grassoccia, sottobraccio al figlio in tempesta ormonale: «Figliolo, puoi avere delle amiche non ebree, ma non te ne devi innamorare. A casa nostra ci si sposa solo tra ebrei»; «Va bene, mamma», dice il ragazzo. Riflettendo, però: «Non ci capisco niente! E se ho un’amica ebrea di cui non sono innamorato, e una non ebrea di cui sono innamorato, come la mettiamo? Sposo la prima e vado a letto con la seconda?» (e, in effetti sarà così, col cadeau di tre figli cresciuti a pane e Torah...). La scoperta del sesso dell’ex ragazzo Michel Kichka - oggi affermato illustratore umoristico presso la presso la Bezalel Academy in Israele - si dipana in fondo a pagina 51 de La seconda generazione - Quello che non ho detto a mio padre (Rizzoli Lizard, pp. 112, euro 16), il graphic novel che nel Giorno della Memoria porta a galla il più grande effetto retroattivo della Shoah. La «sindrome della seconda generazione», appunto. Quella, cioè, che spinge al suicidio o alla psicoterapia la generazione di ebrei che ha vissuto il dramma dell’Olocausto solo attraverso i gesti, gli incubi, i ricordi dei propri padri. Un dolore differito. Che ha riempito l’esistenza anche del padre di Kichka, Henry, che è l’unico membro della famiglia d’origine sopravvissuto alla Shoah: «Il ricordo l’ha reso muto, schiacciato da un dolore profondo e assordante. Fino al 1988, quando tocca a lui scoprire il cadavere del figlio minore, morto suicida. Dopo la cerimonia funebre qualcosa dentro Henri si rompe, come una diga che cede, e i ricordi dell’Olocausto divengono un inarrestabile fiume di parole che investe chiunque gli si trovi davanti. Henry diventa così uno scrittore di fama e una sorta di eroe della Shoah; il trauma più recente gli ha restituito una voce, ma non la libertà di vivere un’esistenza normale», narra la sinossi. Da questa trama, all’apparenza puntellata dalla tragedia, si snoda invece l’autobiografia di una famiglia invasa dall’ironia e dalla tenerezza. Le elementari del giovane Michel passate nell’ex casa belga dell’ex feldmaresciallo Hinderburg, tra partite di calcio giocate nell’ora di religione «coi figli dei diplomatici del Congo. Era un po’ tipo le minoranze contro tutti gli altri»; la soffitta alla Anna Frank dove i quattro fratellini Kichka vivevano senza bagno ma con grande fantasia, mentre il padre li addormentava non raccontando loro favole ma gli orrori del campo di concentramento; le prime esperienze coi numeri tatuati sulle braccia pelose di papà; lo yiddish parlato dai genitori ma mal tollerato dai figli («che lingua ridicola», «sembra cinese»); i pellegrinaggi ad Auschwitz di papà Henry che pubblica un  bestseller sull’argomento e snobba Se questo è un uomo di Primo Levi («Scritto bene, ma lui ha passato solo un anno a Buna, come chimico. Non ha sofferto come me...»); il funerale allegro del cane Tango che bussava alle porte dei vicini per i suoi tour gastronomici e che viene sepolto «a Gerusalemme, all’ombra di un grande pino di fronte alla collina di yad vaghem, il memoriale della Shoah». E ancora: l’ossessiva ricerca dei propria antenati ebrei ashkenaziti (una costante dei sopravvissuti); e i matrimoni; e i figli; e le ubriacature familiari ironizzando su Hitler.  Tutto nella Seconda generazione ha un ritmo lieve, agrodolce, come nel film Train de vie di Radu Mihãleanu, o nelle Ceneri di Angela di Frank Mc Court. Qui l’ossessione della Memoria è il pretesto di una catarsi inevitabile: nell’epilogo Kichka, dopo dieci anni di tentativi falliti, disegna finalmente le sua vita; e lo si vede planare leggero, in mutande, sulle sue tavole. I personaggi sono talmente positivi che - come scrive qualcuno - «ti verrebbe voglia di abbracciarli tutti, uno ad uno». La prova che davvero l’ironia è il pudore della coscienza. Specie quella di un popolo che non aveva proprio niente da ridere... di Francesco Specchia