La notizia non è di quelle che trovano spazio in prima pagina. Anzi, molti giornali l’hanno pure ignorata in quelle interne. E però è la chiave di tutto. In particolare è la spiegazione di un fallimento: quello di Matteo Renzi e di chi è venuto prima di lui. Di che si tratta? Di una nota, anzi di un inciso, dentro una ricerca fatta da Mediobanca sui principali gruppi industriali italiani. L’analisi, che viene pubblicata periodicamente dalla banca d’affari milanese, spiega che il 67 per cento della produzione Made in Italy non è fatto in Italy ma altrove. In pratica di italiano nella produzione spacciata per tale c’è soltanto l’etichetta. Attenzione: non siamo di fronte alla solita fabbrica delle frodi, ovvero a merce contraffatta ma spacciata per autentica. Siamo dinanzi a merce regolarmente prodotta dai marchi titolari e che tuttavia non esce da stabilimenti nazionali, bensì da unità produttive dislocate altrove. Nell’Est Europa oppure in Asia, là cioè dove i costi industriali sono più bassi e le tasse più favorevoli. È il fenomeno della delocalizzazione di cui si è parlato per anni. Attenti, a causa delle troppe imposte e degli eccessi sindacali le aziende se ne vanno, scrivevamo. Bene, dopo un decennio trascorso a lanciare allarmi (ricordiamo l’ex segretario della Cisl Savino Pezzotta che criticava i colleghi duri a capire cosa stava succedendo e aggiungeva: che faremo quando le imprese se ne andranno, organizzeremo dei charter per portare i lavoratori? ) adesso il trasloco è compiuto: il 67 per cento del Made in Italy viene fabbricato da operai che non sono italiani e probabilmente le tasse non sono pagate in Italia. Clicca sul link e leggi l'editoriale di Maurizio Belpietro in versione pdf