Eravamo quelli dei governi balneari, siamo diventati la nazione che l’agenzia di rating S&P promuove perché è un esempio di stabilità politica; mentre i titoli di Stato americani sono colpiti dall’incertezza, le richieste per l’acquisto dei nostri Btp sono stellari; la sinistra starnazza da due anni e mezzo che siamo «isolati in Europa» e a Washington l’Italia si è presentata come la voce dell’Unione.
La linea di Meloni è quella di un Eurorealismo che con l’arrivo di Trump ha moltiplicato il suo valore facendo vacillare l’Europeismo delle sinistre. La missione alla Casa Bianca è un successo costruito guardando con pragmatismo l’agenda americana, l’interesse italiano e la partita dell’Europa. Il documento finale del vertice è la prova di questa linea concreta: cooperazione militare, impegno nella Nato, lotta contro l’immigrazione illegale e i trafficanti di stupefacenti, in particolare quelli sintetici (leggere alla voce Fentanyl). Washington e Roma puntano a ampliare la collaborazione nell’energia (acquisti di gas liquido), nell’alta tecnologia, nella creazione di campioni digitali, nell’Intelligenza Artificiale, nel biotech, nell’aerospazio, nella cantieristica (Fincantieri è il nostro grande player) settore dove gli Stati Uniti sono dominati dalla Cina.
C’è un disegno su tre piani - americano, europeo, italiano - che si sviluppa seguendo l’ondata hi-tech e la regionalizzazione della produzione, con la rinascita delle aree di influenza. I dazi di Trump sono sulla scacchiera, come molti altri pezzi, e ora si negozia, senza infantilismi. L’America ha bisogno di alleati per rispondere alla sfida di Pechino e quando Meloni dice nello Studio Ovale «We Make West Great Again», punta a convincere Trump a mantenere «l’Occidente unito» perché sa che il pericolo è quello di un accordo America-Cina che taglia fuori tutti, un G2. Potrebbe non bastare, ma per evitare il collasso ora abbiamo una chance: l’Eurorealismo meloniano.