La suggestione è stata accarezzata ieri da Giancarlo Giorgetti: sospendere il Patto di Stabilità. Una proposta che arriva a nemmeno un annodi distanza dalla riforma delle regole Ue sui conti pubblici. E che segue alla deroga varata dalla Commissione nel pacchetto ReArm Europe, poi ribattezzato ”Readiness 2030”, che prevede di scoporare dai vincoli europei le spese militari fino all’1,5% del Pil. La cervellotica riforma del Patto approvata il 23 aprile dell’anno scorso è già svuotata. Ma l’esigenza di una moratoria si riaffaccia periodicamente nei momenti di crisi. Il Patto di Stabilità e Crescita, sottoscritto nel 1997 e in vigore dal 1999, nasce per rafforzare la disciplina fiscale dei Paesi Ue che adotteranno l’euro. Ma non ha mai funzionato.
Il trattato riprende i famosi parametri di Maastricht, che impongono agli Stati di mantenere il deficit sotto il 3% del Prodotto interno lordo (Pil) e il debito sotto il 60%. Viene dunque rafforzata la vigilanza di Bruxelles sui bilanci nazionali e viene introdotto lo strumento della procedura di infrazione. Definito «stupido» nel 2002 dall’allora presidente della Commissione, Romano Prodi, il Patto si sbriciola al primo banco di prova. Nel 2003 Francia e Germania sforano il limite del 3% del deficit, ma il consesso dei ministri dell’Economia dell’Ue (Ecofin) boccia la richiesta della Commissione di sanzionarli. Tra il 2000 e il 2005, il bilancio tedesco passa da un surplus dell’1,3% del Pil a un disavanzo del 3,4% nel 2005. La spesa pubblica lievita per sussidiare le imprese e l’economia alle prese con le riforme Hartz che precarizzano il mercato del lavoro. E le regole, percepite ormai come un cappio dai due maggiori Paesi Ue, vengono ammorbidite nel 2005. Nel 2010, a seguito della crisi dei debiti sovrani, la Germania chiede agli Stati membri di inasprire le regole e imporre il raggiungimento del pareggio di bilancio: le spese non devono superare le entrate, nonostante la gravità della situazione richieda massicce iniezioni di liquidità da parte dei governi per rianimare l’economia.
I Paesi più in difficoltà, come l’Italia la Spagna e la Grecia, sono costretti dalla pressione di Bruxelles a tagliare la spesa pubblica e ad aumentare le tasse, stroncando sul nascere la flebile ripresa. Con un accordo intergovernativo che scavalca Commissione e Parlamento, nel 2012 viene varato il Fiscal Compact che riduce al minimo gli spazi di bilancio dei governi. Oltre all’introduzione del pareggio di bilancio nelle Costituzioni nazionali, gli Stati devono anche garantire un disavanzo strutturale (al netto del ciclo economico) inferiore allo 0,5% e ridurre di un ventesimo ogni anno il debito che eccede il 60% del Pil. Le regole così riformate rimangono in vigore fino al 2020, quando la pandemia spinge la Commissione a sospenderle per sostenere famiglie e imprese. Il resto è storia recente. La moratoria scade nel 2023 e nel 2024 i governi europei si accordano su una profonda riscrittura dei vincoli di bilancio. A ogni Paese viene assegnato un piano di aggiustamento che punta a ridurre il debito su un arco temporale di 4 o 7 anni. Le regole, sebbene più blande rispetto al passato, sono ancora cervellotiche e azzerano per i Paesi ad alto debito, a cominciare da Italia e Francia, qualsiasi spazio fiscale.
Il protrarsi della guerra in Ucraina, il timore di un disimpegno degli Usa dalla Nato e la crisi strutturale in cui è precipitata l’economia tedesca dopo il Covid, spingono la Germania a modificare la Costituzione. Il governo Merz, non ancora in carica, fa approvare dal Parlamento una radicale modifica della Carta per aumentare la spesa in infrastrutture e per escludere dal “freno al debito”, che limita il deficit del governo federale allo 0,35%, le spese militari. La proposta viene lanciata dal candidato cancelliere per la Cdu, Friedrich Merz, il 15 gennaio 2025. Il 4 marzo von der Leyen annuncia la prima bozza del pacchetto ReArm Europe, che esclude le spese belliche fino all’1,5% del Pil dai vincoli di bilancio. Ancora una volta, la Germania detta l’agenda. E l’Europa segue.