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L'ideologia non guidi il riarmo dell'Europa

Corrado Ocone
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Per tenersi in piedi, per assumere una parvenza di vita, quell’enorme baraccone che è diventata l’Europa ha bisogno delle emergenze. È un dato di fatto. Poco importa che le emergenze siano vere in tutto o solo in parte. Oppure che siano addirittura costruite ad arte, in laboratorio come un veleno qualsiasi. Quando scatta l’emergenza i toni dei leader europei si fanno accesi, le dichiarazioni enfatiche, le preoccupazioni esagerate, le velleità da “primi della classe” insopportabili. Il problema vero sorge però quando si passa all’azione, quando cioè si cominciano a prendere decisioni politiche destinate a cambiare la vita dei cittadini. Quanti danni possa creare il meccanismo emergenziale quando si converte in azione lo abbiamo visto sia con il cosiddetto “New Green Deal” sia, ahimé!, ai tempi del Covid. Non vorremmo che qualcosa del genere accadesse ora con il cosiddetto “ReArm Europe”.

Vertici, proposte, velleitarie dichiarazioni d’intenti, si stanno susseguendo da giorni in maniera convulsa da una capitale all’altra del continente. Non c’è leader europeo che non rilasci dichiarazioni, spesso senza senso, irrazionali, affrettate, salvo poi contraddirsi o essere contraddetto. Non vorremmo che presto si passasse alla “fase 2”, cioè si cominciassero a chiedere sacrifici e a tassare i cittadini per raggiungere obiettivi che, almeno al momento, sembrano vaghi. Quello della difesa e della sicurezza europee, di ogni singolo Stato e del continente intero, è certamente un problema. Ma non lo è da oggi e non lo è perché Donald Trump è un “fascista” che, insieme a Vladimir Putin, vuole dividersi di nuovo l’Europa in una sorta di Yalta aggiornata.

 

Che credibilità ha gridare all’emergenza dopo che per anni si è praticamente delegato al generoso alleato d’oltreatlantico la propria difesa, dopo che si è fatto orecchie da mercante agli inviti a contribuire in maniera maggiore alla sicurezza comune? Era tanto difficile prevedere che Trump, una volta al potere, facesse quello che aveva promesso di fare in campagna elettorale? D’altronde, quello che sta facendo ciò è ciò che la stragrande maggioranza degli americani, compresa una buona parte di chi ha votato per i democratici, vuole che il governo federale faccia: spegnere i focolai di guerra e non inviare più truppe e risorse in ogni parte del globo senza garanzie di successo. Può piacerci o no ma per l’America non è un dovere morale fare quel che nessun’altra potenza fa.

A parte ogni altra considerazione, il momento potrebbe essere per gli europei, se ne avessero la capacità, quello giusto per affrontare con serietà quei problemi strutturali che per anni sono stati nascosti sotto il tappeto, a mala pena coperti da una retorica ipocrita e sempre più vuota. A cominciare dal deficit democratico delle istituzioni comuni, ovvero dalla necessità di una governance che preveda accordi su questioni essenziali come la difesa ma garantisca per il resto la polifonia delle voci e la pluralità delle culture che costituiscono l’identità e la ricchezza spirituale del continente.

Il richiamo all’emergenza rischia invece di essere l’ennesimo elemento di “distrazione di massa”, l’ennesima fuga dalla realtà e l’ennesimo tuffo nelle acque dell’ideologia. Come abbiamo visto in passato, l’emergenza è poi anche uno straordinario sistema di potere in mano a leader in crisi di consenso o alla ricerca di una legittimità che hanno perduto. Oltre che un dispositivo di controllo e sorveglianza ed un meccanismo di esclusione e censura. Non vorremmo che, da qui a poco, chi osasse avanzare dei dubbi sulla politica di riarmo, o anche solo fare delle proposte diverse da quelle certificate a Bruxelles, venga visto come un reietto, un essere immondo, una persona da delegittimare e non far parlare. E un film che abbiamo già visto. Risparmiateci il remake.

 

 

 

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