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La Ue va a sbattere se insegue un Macron sempre più debole
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Domanda facile: come può un presidente in forte crisi politica e di consenso in patria essere un leader autorevole in Europa? Non può, ma siccome l’Europa sta franando allora si appende ai galloni della Francia, nobile in decadenza. Emmanuel Macron negli ultimi mesi è riuscito nel capolavoro di indire elezioni anticipate al fine di contenere il pressing della Le Pen contrapponendole un fronte disomogeneo al grido: salviamo la Repubblica dalle mani del pericolo fascista. La mossa, azzardata, è riuscita sul piano numerico - perché al secondo turno i candidati anti Marine hanno prevalso - ma non ha contribuito alla governabilità, motivo delle elezioni anticipate stesse.
La stessa miopia politica (o eccessiva presunzione) si ripete oggi in un summit all’insegna del “facciamo vedere che ci siamo anche noi”, un vertice che, a pesarlo al netto, non aumenta di un grammo la forza dell’Unione europea, la quale paga tutti i suoi errori di impostazione, rimarcati ancora una volta ieri da Mario Draghi. In questi tre anni, il fronte europeo non è stato in grado di mettere sul piatto una proposta credibile per un tavolo di mediazione finalizzato a chiudere il conflitto in Ucraina. Lo hanno fatto invece i sauditi e la Turchia, come dimostra il vantaggio acquisito sul campo e riconosciuto dalle stesse parti. L’Unione europea è andata avanti con la spocchia di chi pensava che la storia dovesse passare da ßquasi come fosse un atto dovuto. Così non è e non sarà: l’Europa entrerà in scena quando i passi fondamentali saranno compiuti. E dovrà pure adeguarsi se non vuole complicare ulteriormente la sua stessa posizione.
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Del resto la fotografia di quel tavolo evidenzia tutti i limiti della postura europea. In primis: perché in Francia e perché Macron? Se l’Europa ha da dire qualcosa lo fa attraverso il suo organo più politico, cioé il Consiglio europeo; e lo fa tenendo in considerazione che a giorni la Germania va al voto per sancire quel cambio di impostazione che sta nella Cdu più che nella temuta AfD (la cui forza elettorale accrescerà senza dubbio ma non in una portata tale da porla come primo partito o da consegnarle una golden share) e che in Francia il presidente della Repubblica è appunto - in caduta libera nel gradimento popolare.
All’interno del Consiglio europeo, il peso politico dei governi conta eccome: che peso hanno la Spagna, la Danimarca, i Paesi Bassi, rispetto all’Italia la cui visione non è affatto allineata al padrone di casa? Ci torneremo. Aggiungo, per chiudere sui partecipanti: la Polonia è lì solo perché ha la presidenza di turno o perché paese “minacciato” da Putin? Se così fosse allora non si capisce l’assenza dei paesi scandinavi. Infine la Gran Bretagna, che sta all’Unione come ci può stare la Norvegia.
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Insomma, un mix con densità politiche che sfuggono alla reductio ad unum. E torniamo quindi al solito grande dilemma: l’Europa non ha il “fisico politico” per reggere la sfida lanciata da un peso massimo come l’America, l’Europa è nella perenne attesa di Godot: faremo, vedremo, saremo... La sfida è hic et nunc. È adesso che doveva esserci come soggetto politico, ma non c’è perché non è. In questo equivoco identitario si infila Macron e la Francia, cui Bruxelles ha delegato la politica estera come alla Germania aveva delegato le politiche di bilancio ed economiche. Solo che l’asse franco-tedesco non tiene più. Giorgia Meloni ha fatto bene a “timbrare il cartellino” ed esserci, ed ha fatto ancor meglio a rimarcare che nessuno si può sognare di sfilare agli americani il primato politico della forza negoziale e di farlo secondo la dottrina del suo presidente. È in quello scenario che ci si pesa.
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