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Se i dazi di Trump sono la risposta ai limiti dell'Ue

Sandro Iacometti
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L’Europa è su tutte le furie. «Vogliamo continuare a cooperare con gli Usa ma le guerre commerciali e le tariffe punitive non vanno a vantaggio di nessuno. I dazi sono tasse. Fanno salire l'inflazione. Colpiscono i lavoratori, le imprese e i gruppi a basso reddito», ha detto ieri la presidente Ursula von der Leyen, aggiungendo, a muso duro, che la risposta della Ue alle nuove politiche Usa sarà «ferma, chiara e proporzionata». Parole che hanno riscosso molti applausi nel Vecchio continente, anche da esponenti del governo italiano, e ovviamente da parte della sinistra, che odia Trump a prescindere e dice che è tutta colpa di Giorgia Meloni.
Al di là del disorientamento e del panico che da un mesetto sta provocando in tutto il mondo il neo presidente degli Stati Uniti (con risultati che su guerre e difesa Ue sembrano per ora tutt’altro che negativi) cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sulle terribili minacce provenienti da Oltreoceano. I fatti, per ora, dicono che Trump ha incaricato la sua squadra economica di elaborare piani per tariffe reciproche su ogni paese che impone tasse sulle importazioni statunitensi. E se una cosa non si può davvero dire del presidente è che non parli chiaro. Ecco le sue parole pronunciate nella sala Ovale della Casa Bianca: «Per ragioni di equità, ho deciso che applicherò una tariffa reciproca; ciò significa che qualunque paese applichi una tariffa agli Stati Uniti d'America, noi applichiamo una tariffa a loro. Non di più, non di meno». Messa così non sembrerebbe proprio una randellata.

 

 

La von der Leyen, però, la pensa diversamente. «L'Ue prospera come una delle economie più aperte al mondo, con oltre il 70% delle importazioni che entrano a tasse zero. La tariffa media applicata dall'Ue sulle merci importate rimane tra le più basse a livello globale», assicurano da Bruxelles. Se fosse così, l’Europa non avrebbe nulla da temere: zero tasse sulle importazioni, zero dazi per le esportazioni negli Usa. Il problema è che non è proprio così. Da quando è stato costituito il Mercato Unico Europeo e sono state abolite le frontiere doganali tra i paesi membri dell’Ue, il concetto di importazione si riferisce unicamente all’introduzione di beni di provenienza extracomunitaria. Se il bene proviene da un Paese esterno all’Unione europea, occorre pagare l’imposta di importazione, che è riscossa dalle dogane al momento dell’importazione sotto forma di dazio doganale.

Quest’imposta in realtà si chiama IVA, ma la sostanza è la stessa. Tutte le attività che vendono beni fisici o digitali in Ue, compresi i venditori extra Ue, devono riscuotere l'IVA in base alle leggi e ai regolamenti in vigore a livello locale. Una registrazione tardiva o una mancata registrazione possono portare a sanzioni e multe ingenti, oltre all'interesse composto maturato. E il dazio, pardon l’IVA, non è proprio trascurabile. Le aliquote variano a seconda del paese Ue. L'aliquota minima standard è pari al 15% per tutti i 27 stati membri. Poi le aliquote effettivamente applicate nei vari paesi vanno dal 17% al 27%. La realtà è che prima di mostrare i muscoli l’Europa, che vive di esportazioni, dovrebbe farsi bene i calcoli. Soprattutto l’Italia, dove l’export, come ha ricordato ieri Tajani vale il 40% del Pil.

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