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Più Thatcher, meno Macron: Trump e i dazi, da dove deve ripartire l'Europa
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«Li ho affrontati con decisione: con un colpo di naso sul pugno e un colpo di mento sulle ginocchia». Uno spiritosissimo Woody Allen d’annata descrive bene le ridicole velleità di vendetta che oggi sembrano abitare dalle parti di Bruxelles e di Parigi. Come se l’attuale Ue fosse in condizione di far paura a qualcuno, in particolare a Donald Trump.
Ancora peggiore è la pervicacia di quelli che insistono per una sempre maggiore integrazione europea. È venuto il momento di dirlo: sbagliare è umano, perseverare è eurolirico. Dopo annidi forsennate verticalizzazioni in capo a Bruxelles, a cui sono seguiti per un verso evidenti insuccessi nella gestione centralizzata di qualunque dossier (crisi economico-finanziarie, Grecia, immigrazione, pandemia, guerre), e per altro verso un netto e crescente dissenso anti-Ue da parte dell’opinione pubblica dei singoli paesi europei, è folle continuare a dire “Ci vuole più Europa” come se fosse una giaculatoria. “Ma non ha funzionato”, obiettano gli osservatori rimasti minimamente lucidi.
“Ah sì? Non ha funzionato? E allora datecene ancora di più”, è la surreale conclusione eurolirica. E siccome la follia non accenna a diminuire in intensità, adesso non solo si insiste con questo assurdo mantra, ma lo si carica addirittura di una valenza ostile nei confronti di Trump. “Ci vuole un anti-Trump”, dicono e scrivono i soliti noti: e intendono che da Bruxelles bisognerebbe avviare una strategia di contrapposizione - politica e commerciale- verso la nuova amministrazione americana. Non capendo o fingendo di non comprendere la natura tutta negoziale delle mosse di Trump, a partire dal preannuncio relativo ai dazi: si richiederebbero dunque sangue freddo e capacità di manovra politica, altro che colpi di testa e reazioni scomposte.
Anche perché delle due l’una: o chi cerca la lite con gli Usa, qui in Europa, è politicamente cieco, oppure – ipotesi più probabile – già lavora per Pechino, come mostra purtroppo una significativa serie di precedenti, a partire dello sciagurato green deal che in prospettiva può rendere il nostro continente subordinato alla Cina una prima volta in termini energetici e una seconda volta – tra pochi anni – anche sul piano delle produzioni automobilistiche cinesi a bassissimo costo che invaderanno il nostro mercato.
Il quadro è ulteriormente aggravato da due fattori. Per un verso, l’attitudine Ue ad agire senza e contro il consenso dei cittadini europei, i quali ormai non sanno più cosa fare per far capire che non ne possono più delle ricette pro-Ue (non basta vedere in Germania l’AfD al 22-23%?). Per altro verso, sempre andando contromano rispetto alla volontà popolare, occorrerebbe - secondo i soliti “esperti” - conferire ulteriori poteri a Bruxelles, imboccare definitivamente la strada del Super-Stato, lasciare che sia Bruxelles a decidere mega-piani di spesa ultradirigisti, magari attribuire a Bruxelles anche la facoltà di imporre tasse europee (svuotando definitivamente governi e parlamenti nazionali), e comunque nel frattempo incentivare la possibilità europea di attingere a risorse private (“canalizzare il risparmio privato”, dicono per indorare la pillola o la supposta, a seconda dei casi) sempre per finanziare i mega-piani.
I nostri strateghi eurolirici devono essere completamente impazziti. Forse nemmeno se ne rendono conto, ma disegnano uno scenario che rischia di portare a una specie di guerra civile strisciante: crescita economica ai minimi, disoccupazione di massa, desertificazione industriale (con l’automotive che è già a pezzi), immigrazione e islamizzazione ai massimi, ed elettori sempre più inevitabilmente in cerca di risposte all’insegna della protesta estrema. Ecco, in questo scenario da incubo, la classe politico-burocratica bruxellese (non investita da alcun consenso popolare diretto) dovrebbe sussumere ulteriori poteri e attribuirsi il voto a maggioranza per mettere in condizione di non nuocere i governi eventualmente dissenzienti e politicamente sgraditi, e poi andare alla guerra contro il cattivo Trump.
Per l’Italia sarebbe una prospettiva pericolosissima: il posizionamento politico originale e autonomo del nostro governo diverrebbe irrilevante o marginale. E’ questo che si desidera? E per farsi guidare da chi, peraltro? Dai sistemi che stanno collassando in modo spettacolare, e cioè Francia e Germania. Che userebbero ancora una volta gli altri paesi come scudi umani, salvo poi - al momento opportuno- proporsi loro come “mediatori” con Washington. Una prospettiva del genere va assolutamente respinta. Quanto al futuro dell’Ue, chi scrive è da tempo convinto che si debba recuperare (facendone l’alfa e l’omega di qualunque “riforma” europea) il discorso profetico che Margaret Thatcher tenne a Bruges il 20 settembre del 1988: disegnava un’Europa altamente desiderabile (niente Super-Stato, per capirci), destinata a fare poche cose insieme, a rispettare di più le sovranità e le differenze nazionali, a concepire la propria difesa dentro la Nato (e non altrove), ad allargare gli spazi di mercato e di competizione in una prospettiva di crescita. Senza pretese di integrazione politica eccessiva, e meno che mai di uno scettro del comando affidato a “tecnici” o burocrati senza volto. Aveva ragione lei, che molti leader attuali li avrebbe volentieri presi a borsettate.
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