Centro Europa: il fulcro di pace, guerra e non solo
È bastato aprire una porticina di servizio per sbloccare l’impasse che arrovellava le cancellerie europee e arroventava il decisionismo di Donald Trump. Di fronte ai giganti appisolati dell’Unione Europea il piccolo Robert Fico della piccola Slovacchia, infatti, avrebbe fatto il grande passo con Vladimir Putin mettendosi a disposizione per chiudere la guerra con l’Ucraina. Con il grande freddo dell’inverno è arrivato il momento di congelare il fronte e scongelare la diplomazia. Le sorti del conflitto non possono essere invertite, lo stesso Zelenskyj sembra averne preso atto seppur con mille equilibrismi verbali. La parola passa alla politica, e lo fa attraverso quei Paesi che sono stati più tiepidi nell’appoggio all’Ucraina: più pragmatici e meno propensi a svincolarsi da un realismo che fa fare i conti con la storia e la giustizia, ma anche con le più prosaiche esigenze derivanti dalle forniture di gas russo.
Che passano dall’Ucraina e di cui Kiev si serve come mezzo di pressione perché è pacifico che i soldi incamerati da Gazprom alimentano la macchina bellica putiniana. Zelenskyj non ha accolto con favore l’assist slovacco alla Russia, ma non ha alternative. A meno che non ritenga utile far saltare il banco impuntandosi con i famosi dieci punti incardinati a condizioni fantascientifiche come il ritiro dei russi ai confini prebellici. La Slovacchia, come l’Ungheria, ha fretta perché ha sete di gas russo per scaldarsi e per l’economia, mentre l’Europa, in palese imbarazzo per l'inconsistenza della sua politica estera, ha solo la possibilità di consentire di salvare la faccia a chi ha perso e impedire che chi ha vinto voglia stravincere.
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Putin dovrà concedere qualcosa per guadagnarsi il biglietto di ritorno nei salotti buoni della politica internazionale e darsi una candeggiata alla reputazione, a partire dalla macchia di criminale di guerra. Le truppe di Zelenskyj, a corto di rincalzi e finita l'epoca dei proclami, non possono tenere un fronte lungo come l’asse dalla Calabria alle Alpi. Fuori dai confini dell’Ucraina profughi e rifugiati sono milioni, e tanti quelli entrati col tempismo giusto per non essere arruolati. Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno assorbito l’impatto solidale dei primi tempi ma le opinioni pubbliche mostrano alla lunga segni di stanchezza, assai più dei Paesi occidentali che hanno allargato i cordoni della borsa per sostenere i costi di una guerra che l’Ucraina non poteva e non può vincere. Anche l’aiuto ai civili ha un costo alto, sia economico sia sociale. In Repubblica Ceca, dieci milioni di anime, gli ucraini tra censiti e non sono circa un milione.
Il “cugino” slovacco Fico ha sparigliato il tavolo diplomatico con l’offerta di mediare e fare trattare, ma è chiaro che tutto deriva da un “ballon d’essai” che ha fatto scattare il disco verde. A Putin sta bene, altrimenti non l’avrebbe rivelata; a Zelenskyj dovrà andare bene, per giocarsi le sue carte, se davvero ne ha, a tu per tu, con l’appoggio europeo e americano. Appoggio invece di sostegno, che ha avuto sotto forma di finanziamenti e di aiuti militari che hanno impedito il crollo dell’Ucraina sotto il rullo compressore russo. A essa l’onore delle armi nessuno potrà negarlo, anche perché nessuno ha mai creduto alla storiella della controffensiva che avrebbe dovuto rovesciare le sorti di un conflitto segnato.
Si dovrà avviare la fase difficile della transizione, della ricostruzione, della tutela dei confini di un’Ucraina territorialmente ridimensionata, fuori ora e per anni dall’ingresso nell’Unione Europa e nella Nato. Un conto è la realtà, un conto sono i desideri. “Bonne chance mais faites vite” (buona fortuna ma fate presto) valeva ai tempi di Napoleone III con Cavour e può valere anche nell’era di Putin e di Trump mentre Fico apre la porticina socchiusa.
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