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Bruxelles, ecco perché è ostaggio delle manovre di Macron e Scholz

Francesco Carella
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All’indomani del voto per il rinnovo del Parlamento europeo si fa sempre più forte la sensazione che l’impalcatura su cui poggia il progetto targato Unione dia segnali di evidente fragilità democratica. Intanto, le manovre di puro potere che stanno mettendo in atto in queste ore (sulle nomine ai vertici) i due grandi bocciati, Macron e Scholz ignorando palesemente gli orientamenti dei cittadini elettori- confermano che il pericolo concreto per il futuro dell’Ue è che si stia differendo ancora una volta l’appuntamento con le regole fondamentali della democrazia liberale.

Le premesse di ordine storico per un rischio simile sono state poste alcuni decenni or sono allorquando nel 1992 nella cittadina di Maastricht venne firmato il Trattato omonimo che porterà all’affermazione dell’Euro (operativo dal 1° gennaio 2002). Il vero protagonista di un’operazione che non trova precedenti nella storia politica porta il nome di François Mitterrand. Il presidente francese era ossessionato all’indomani della caduta del Muro di Berlino che una Germania di nuovo unita potesse rappresentare un grande pericolo sia per la Francia che per gli altri Paesi europei. Egli era convinto che l’unico modo per contenere la potenza tedesca potesse venire dal legarla rigidamente a una moneta unica e a tutto ciò che essa comportasse. Del passo falso commesso dalle leadership dei paesi europei in quei mesi non si avvide quasi nessuno.

 

 

 

L’entusiasmo generalizzato silenziava di fatto le poche voci in dissenso. Fra queste vi fu quella dell’allora giovane storico britannico, Niall Ferguson, che mise tutti sull’avviso circa i pericoli che il Vecchio Continente stava per correre. Egli scrisse che «i leader europei avevano ignorato uno dei più importanti insegnamenti della storia moderna: si arriva alla moneta unica solo dopo avere costruito l’unità politica. L’Unione ha fatto esattamente il contrario, creando le premesse per un lungo periodo di difficile e incerta governabilità». Parole profetiche a giudicare da quello che è accaduto negli anni che seguirono, laddove le tensioni fra Bruxelles e gli Stati nazionali hanno assunto un carattere sempre più complicato in ragione della mai risolta legittimazione politica.

Se, per dirla con Ernest Renan, «la nazione è una grande solidarietà che richiede un plebiscito di tutti i giorni», va da sé che una comunità sovranazionale non possa sopravvivere per mezzo di mere operazioni di tipo tecnico-normativo. Occorre avere contezza che non si possa forzare l’orologio della storia né che si possano escludere di fatto i cittadini elettori nelle scelte determinanti per il loro futuro. Si tratta del grande nodo da sciogliere, ma che non si potrà mai farlo se leader quali Macron e Scholz continueranno ad ignorare ciò che i cittadini europei hanno voluto esprimere l’8 e il 9 giugno scorsi ovvero che è quanto meno urgente ripartire dalle radici storico-culturali del Vecchio Continente e da quel ricco giacimento di valori e tradizioni- come ricordava pochi giorni fa su Libero il politologo Yves Mény - di cui sono depositari gli Stati nazione.

 

 

 

Il futuro dell’ambizioso progetto europeo si gioca su questi temi. In tal senso, il nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è chiamata a svolgere già a partire dalle prossime ore un ruolo di difficile mediazione, pieno di ostacoli, ma indispensabile per un robusto cambio di passo. A meno che non si voglia continuare con le logiche delle “società chiuse”, dove chi vota non conta nulla. Nel qual caso il sogno europeo è destinato a tramutarsi in un incubo.

 

 

 

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