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Francia e Germania non sono più il motore del Vecchio Continente

Corrado Ocone
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Che l’Ue si sia sempre retta sul cosiddetto “motore franco-tedesco” è, prima che un luogo comune, una verità storica. Quella che gradualmente ha preso forma negli anni è stata un’Europa in cui tutte le decisioni più importanti sono state prese previo accordo fra il presidente francese e il cancelliere tedesco.

Questo schema non è mai stato messo in discussione, nemmeno dai due Paesi che, essendo di grandezza quasi simile a quella di Francia e Germania, avrebbero potuto permetterselo. In effetti, l’Inghilterra ha coltivato verso il progetto europeo un sano scetticismo che l’ha fatta stare, prima di uscirne, sempre con un piede dentro ed uno fuori; l’Italia, al contrario, pur essendo un Paese fondatore, si è sempre allineata alle decisioni prese dai “due grandi”, un po’ per le sue strutturali difficoltà economiche ed un po’ per quella deleteria ideologia del “vincolo esterno” che ha sempre animato le sue classi dirigenti. L’idea era, come è noto, che i “vizi italiani” non avrebbero potuto mai essere corretti da noi stessi ma solo da un potere esterno che ce lo imponesse (da cui la nota e impolitica espressione con cui si metteva a tacere chi su certe politiche la pensava diversamente: «L’ha detto l’Europa!»).

 

Non è un caso che quel “motore” si sia nel tempo inceppato: da una parte, l’Unione si è sempre più allargata, fino ad arrivare a 27 membri; dall’altra, con la fine della “guerra fredda” son venuti meno quei motivi che spingevano gli Stati Uniti a dare un supporto non irrilevante alla vecchia struttura di potere. Come se non bastasse, l’Italia, con il governo Meloni, ha abbandonato quell’atteggiamento supino di adesione acritica (e spesso masochistica) alle decisioni di Bruxelles che ha caratterizzato per anni la sua politica. Il colpo di grazia alle velleità franco-tedesche sembra però averlo dato il recente turno elettorale, azzoppando i leader che dovrebbero oggi farsene interpreti e che sono invece debolissimi. In sostanza, l’impressione è che il “motore” stia ormai sul punto di scoppiare. Che Emmanuel Macron e Olaf Scholz facciano finta di nulla e si siano assunti in questi giorni la funzione di king maker, brigando alle spalle degli altri Paesi e soprattutto del nostro, è perciò una mossa di corta veduta, politicamente stupida.

 

Ad entrambi manca quella autorevolezza che avevano avuto, in un lontano passato, le “coppie” Brandt-Pompidou, Schmidt-Giscard d’Estaing e Kohl-Mitterrand. I quali, statisti e politici di vecchio conio, non avrebbero mai commesso l’errore di isolare l’Italia, né mai avrebbero definito spregiativamente di “estrema destra” forze che, con ampio consenso, guidano oggisaggiamente un grande Paese democratico. Con quei vecchi leader, gli attuali due hanno poco da vedere, essendo Macron il risultato di un progetto tecnocratico delle élite sapientemente venduto come politico ed ormai del tutto fallito, e Scholz la guida incolore di una coalizione che fa acqua da tutte le parti. In questa situazione l’Italia ha diritto a battere i pugni sul tavolo per non essere esclusa. A Giorgia Meloni tocca però portare avanti anche altre due battaglie, più generali: l’una ideale e l’altra geopolitica.

Occorre, infatti, da un lato, dare piena legittimità all’interno delle istituzioni europee a una visione diversa rispetto a quella ideologica e socialisteggiante attualmente predominante, e dall’altro rivedere gli stessi equilibri territoriali o geopolitici fra i vari Paesi dell’Unione. Oggiun’Europa carolingia non è più concepibile perché il futuro del nostro continente si giocherà non più sull’asse atlantico, ma sulla frontiera orientale e su quella meridionale. I temi della difesa e dell’immigrazione, come la politica estera italiana ha da tempo intuito, diventeranno sempre più centrali.

Le esigenze dei Paesi dell’Europa centro-orientale e di quelli latini non potranno più passare in secondo piano perché esse sono diventate le esigenze di tutti gli europei. In definitiva, la domanda a cui si dovrà rispondere è se sia ancora possibile un’Europa insieme multilaterale, cioè senza figli e figliastri, e plurale, cioè non dominata da un “pensiero unico”. È l’unica via che potrà salvarci. L’Italia ha in questo momento le carte in mano per poter giocare con qualche speranza la partita.

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