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Europee, le manovre di Macron per Draghi leader Ue

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Scrive Bloomberg che Emmanuel Macron sta manovrando dietro le quinte per piazzare Mario Draghi alla presidenza della Commissione Ue. All’operazione starebbe partecipando anche il governo italiano, Giorgia Meloni. La cosa è talmente spessa che Bloomberg piazza la storia in apertura del suo sito, prima notizia, quindi cosa corroborata, sottoposta alle verifiche proprie del giornalismo d’agenzia. Ma il detto di Bloomberg è contraddetto da Roma e da Parigi, tutti dicono che la manovra non c’è, l’Eliseo non conferma e da Palazzo Chigi arriva una smentita secca: «Tale indiscrezione è del tutto priva di fondamento. Come più volte chiaramente affermato, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ritiene che qualsiasi contatto o negoziato volto a definire i futuri assetti dei vertici politici dell'Unione potrà avvenire solo dopo le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo».

In questi casi, incassi la smentita, punto e a capo. Il problema è che la storia del Draghi pronto a guidare l’Unione europea resta sospesa a mezz’aria comunque, perché le voci corrono da tempo e, come già accaduto con la candidatura poi emersa goffamente per il Quirinale, sta assumendo la dimensione del soufflé che si gonfia, gonfia, gonfia e poi finisce per esplodere nel forno della politica. Giorno dopo giorno lo scena si popola di dettagli che qualcuno dispensa come un giallo a puntate, evidentemente la candidatura di Ursula von der Leyen non convince tutti (fatto normale) e Macron cerca un jolly perché sospetta che la replica della cosiddetta “maggioranza Ursula” sarà più difficile, perché la prossima legislatura vedrà il Partito popolare e i Socialisti europei divisi su molti fronti, alcuni dei quali sono materiale ad alto voltaggio, chi tocca i C’è un problema di politica estera all’orizzonte, si chiama Casa Bianca e tutti sanno che non è solo il fantasma del ritorno di Trump, visto che le politiche economiche dell’amministrazione Biden hanno prodotto uno scenario di dura concorrenza tra l’industria europea e quella americana. Il presidente degli Stati Uniti ha firmato il nuovo pacchetto di aiuti per l’Ucraina, Israele e Taiwan (95 miliardi di dollari), la guerra subirà un’accelerazione, Vladimir Putin cercherà di anticipare le mosse del Pentagono, ma per quanto tempo ancora Washington sosterrà questo imponente impegno militare e finanziario?

 

 

Il dilemma della guerra e della pace bussa di nuovo alla porta e per l’Unione europea si traduce in un problema di cassa e consenso politico, rapporto tra governo e popolo. Un altro capitolo avvolto nella nebbia è la transizione energetica, l’utopia verde di Bruxelles che non convince più le correnti moderate, riformiste, realiste, dei partiti e alimenta i movimenti di protesta in Europa. Il piano sulla casa green è una iper-costosa chimera e basta dare un’occhiata all’andamento del mercato dell’auto elettrica per capire che l’industria dell’automotive (settore fondamentale per l’occupazione in tutti i Paesi europei) sta pattinando sul ghiaccio sottile. Affondare è questione di un attimo e gli ultimi dati trimestrali diffusi da Tesla sono un memento per tutti.

CAMBI DI SCENARIO
Macron è il leader di una nazione che dopo il voto europeo di giugno entrerà nel ciclo dell’elezione presidenziale, sente il fiato sul collo di Marine Le Pen; Pedro Sanchez in Spagna è di nuovo in crisi, la moglie Begona Gomez, è indagata per corruzione e traffico di influenze, il premier spagnolo minaccia di dimettersi; in Germania il cancelliere Olaf Scholz non se la passa bene, il conflitto in Ucraina ha cambiato la postura geopolitica di Berlino che aveva costruito con i gasdotti Nord Stream un rapporto privilegiato con Mosca, la decisione di non fornire armi a lungo raggio è lo specchio delle difficoltà del cancelliere a far digerire ai tedeschi la fine di un’era di benessere costruita sul gas disponibile in grande quantità, a prezzo basso, senza rischi. Il quadro divide i partiti al loro interno, figuriamoci coalizioni eterogenee, addirittura tra opposti.

 

 

Macron pensa a Draghi perché pensa di aver bisogno domani di un paese chiave, l’Italia, e in particolare dell’appoggio di un premier pragmatico come Giorgia Meloni. Ecco perché tiene nella manica la carta di Mario Draghi, cerca un’exit strategy per un’Europa che dovrà partecipare a giochi senza frontiere, ma con un nazionalismo sempre più radicato tra le classi lavoratrici che si sentono spaesate in uno scenario dove volano missili e la Borsa cresce troppo irrazionalmente per non riservare qualche sboom improvviso. La corsa nell’ombra di Mario Draghi in questo senso ha una logica, il problema è che non è dichiarata (e per questa ragione mostra un deficit di democrazia), è un fiume carsico e nel non detto dei portatori d’acqua dell’ex banchiere centrale, alla fine, rischia di prosciugarsi.

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