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Ue, la svolta d'interesse dei signori di Bruxelles

Corrado Ocone
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 Ieri l’Unione Europea ha trovato un accordo sul Patto per i migranti e l’asilo in Europa. Il presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha parlato di «un giorno storico», mentre la presidente della Commissione Ursula von der Leyen si è spinta a dire che da ora in poi sugli ingressi nel nostro continente «decideranno gli europei, non i trafficanti». Senza scendere nei dettagli dell’accordo, i cui effetti pratici saranno da valutare nel concreto nei prossimi mesi, ciò che più impressiona è proprio il linguaggio usato dai massimi rappresenti dell’establishment europeo. Che l’immigrazione dovesse essere gestita e controllata dalle autorità pubbliche e non affidata a coloro che lucrano sul comune sentimento di umanità, solo fino a qualche mese fa era additato come un atteggiamento razzistico instillato nei cittadini per fini strumentali da quelle forze definite con disprezzo “sovraniste”. Sentire ora parlare Ursula von der Leyen come Matteo Salvini o Giorgia Meloni è a dir poco sorprendente, e pone alcune semplici domande: cosa ha permesso una così vistosa palinodia, anche e soprattutto linguistica? C’è da fidarsi?


Sicuramente non poco ha contato la politica estera del nuovo governo italiano, che diventando assertiva ha posto le premesse per un negoziato vero a livello comunitario. Così come sicuramente conta il fatto che, avvicinandosi le elezioni europee e dovendo dar conto alle opinioni pubbliche dei propri Paesi, anche gli esponenti della maggioranza di Bruxelles (a cominciare dai popolari) hanno necessità di collegarsi con la realtà. Se però è vera questa seconda ipotesi, a cadere è inevitabilmente tutta la retorica che aveva tentato di delegittimare i cosiddetti “sovranisti”, assimilandoli ai fascisti e considerandoli poco più che barbari. Implicitamente oggi si è costretti ad ammettere che costoro, in effetti, rappresentavano, pur fra mille contraddizioni, istanze e bisogni provenienti dalla società civile, cioè facevano quel che dovrebbe fare ogni seria politica in democrazia.

 


A venire fuori sono qui due concezioni opposte della politica, a cui corrispondono due diverse idee del modo di essere classe dirigente. Da una parte, quella che potremmo definire “paternalistica”, in quanto si propone di educare, indirizzare, manipolare l’opinione pubblica; dall’altra, la concezione che assegna alle élite semplicemente il compito di tradurre in politica mediandole le istanze che provengono dal basso, dalla “gente comune”. Che questa seconda posizione sia non solo la più democratica, ma anche la più liberale è chiaro se si considera un semplice punto, su cui molti maestri del liberalismo hanno giustamente insistito in passato: le conoscenze, in società complesse come le nostre, sono diffuse, e nessuno può arrogarsi il diritto di sapere ciò che sia bene per gli altri più di loro stessi. Detto con un esempio, la retorica dell’accoglienza senza se e senza ma se per le élite può essere in astratto una idea altamente morale, che soddisfa la loro ideologia, per i poveri che vivono in periferie degradate è fonte di disagi intollerabili. In questo secondo caso, è inevitabile che si scateni una “guerra fra poveri” non solo economica ma anche culturale. Sarebbe comunque riduttivo ridurre tutto all’ideologia. Il fatto che l’approccio ideologico si leghi meglio di quello realistico ai più biechi interessi di parte non deve ugualmente meravigliarci. Esso è anzi una costante della storia. È proprio sul nostro sentimento morale che fanno leva non solo i trafficanti, ma anche coloro che vogliono solo conquistare il potere per sé e i propri accoliti. D’altronde, il moralismo astratto è in sé stesso un sentimento poco nobile che nulla ha a che fare con la vera morale, la quale è sempre attenta alle conseguenze (anche inintenzionali) delle proprie azioni. Che nella “conversione” a cui assistiamo ci sia tanto di interesse e poco di convinzione lo dimostra il fatto che, da parte di conta a Bruxelles, non è dato sentire un minimo di autocritica. 

 

 

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