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Ue, come vengono sprecati 3,4 miliardi per i rom

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Massimo Sanvito
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Vagonate di quattrini si perdono tra le baracche dei campi rom di mezza Europa. Miriad di progetti ammantati di buonismo si sciolgono come neve al sole ancor prima di essere sottoposti alle famiglie nomadi che popolano i villaggi regolari e abusivi che costellano il continente. L’integrazione, stella polare progressista, non trova terreno fertile davanti alla chiusura culturale tipica della comunità gitana. E sono i numeri, impietosi, a fotografare una situazione paradossale. L’Unione Europea, tramite il proprio Fondo sociale, dal 2014 al 2020 ha speso 1,7 miliardi di euro per l’inclusione socio-economica dei rom e altrettanti ne ha stanziati per il periodo 2021-2027: la bellezza di 3,4 miliardi ripartiti tra 10 Stati membri (Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Grecia, Spagna, Francia, Ungheria, Italia, Romania e Slovacchia). All’Italia, per i primi sette anni, sono stati recapitati 100 milioni: il doppio della Spagna e il quadruplo della Francia.

Ma che fine fanno tutti questi soldi? A giudicare dai risultati ottenuti, messi nero su bianco nell’ultimo rapporto firmato dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, gli sprechi sono senza precedenti. Le politiche di Bruxelles per integrare i nomadi fanno acqua da tutte le parti: dal tema abitativo a quello occupazionale, passando per quello dell’istruzione. Ma andiamo con ordine e partiamo dalla casa. Il 52% dei rom abita in alloggi umidi, bui e senza strutture adeguate: igienico -sanitarie per dirla breve, in condizioni che mal si conciliano con una vita degna. Giusto per farsi un’idea, 8 nomadi su 10 vivono in abitazioni senza abbastanza camere e 1 famiglia su 5 non ha nemmeno l’acqua corrente. La cosa più grave, forse, è che in contesti del genere nascono e crescono migliaia di bambini.

 

 

 

Per quanto riguarda il lavoro, invece, solo il 43% dei rom uomini tra i 20 e i 64 anni ha un impiego a tempo pieno, part time, occasionale o autonomo. Meno della metà della popolazione nomade europea, dunque, si guadagna da vivere faticando. E le donne? Appena il 28%di loro porta avanti un mestiere più o meno stabile. Mentre la maggioranza dei giovani (16-24 anni) né studia né lavora: il 56%. Una percentuale che fa impallidire, se si pensa che all’interno di questa fascia d’età c’è una fetta importante di scuole superiori.

Ed ecco che arriviamo alla formazione e all’istruzione: dai bimbi ai ragazzi. Se a livello europeo il 93% dei piccoli (3-5 anni) frequenta l’asilo, quando si parla di rom si scende al 44%. E l’Italia è tra i Paesi con le cifre più basse: solo tre bambini nomadi su dieci vanno alla scuola dell’infanzia. Crescendo, l’emarginazione si fa ancora più complessa: il 71% dei nomadi trai 18 e i 24 anni ha abbandonato gli studi prima del tempo e solo il 27% dichi ha tra i 20 e i 24 anni ha preso il diploma delle superiori. Una situazione che negli ultimi cinque anni non è cambiata di una virgola.

«La Commissione Europea sembra costantemente impegnata a dirottare fondi su un’inesistente emergenza rom. In questi anni abbiamo votato una proposta avente come titolo “Combattere gli atteggiamenti negativi nei confronti delle persone di origine rom in Europa” e abbiamo persino discusso di una presunta “brutalità della polizia” contro i rom», attacca Silvia Sardone, europarlamentare leghista del gruppo di Identità e Democrazia a Bruxelles, mentre scorre la risposta del commissario all’Uguaglianza, la maltese Helena Dalli, alla sua interrogazione.

Ma che quelle di Bruxelles siano cause perse lo si capisce dal 61% di rom che non si fida della polizia del proprio Paese: chi porta la divisa è un nemico. «Non crediamo che ci sia l’urgenza di sprecare altri miliardi di euro per chi, molto spesso, è nelle cronache per consolidate attività criminali né troviamo giusto che si creino trattamenti di favore per i rom nell’accesso al lavoro o alla casa», prosegue Sardone. Anche se per Michael O’Flaherty, l’irlandese a capo dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali, bisogna essere felici perché «ci sono anche germogli verdi di speranza». Ovvero? Il fatto che il 50% dei rom, grazie alle politiche comunitarie, ora sa che nei rispettivi Stati esistono organismi nazionale per la parità. «Ciò significa che sanno dove possono andare a lamentarsi», esulta il direttore.

Lo scudo della discriminazione, che continua a fare da volàno per lo stanziamento spasmodico di denaro in ottica inclusione, comincia però a scricchiolare. Solo un nomade su quattro, nel 2021, ha dichiarato di essere stato «discriminato» per la propria etnia, appena il 17% «molestato» e soltanto l’1% «aggredito fisicamente». L’odio verso i rom in quanto rom, di fatto, non esiste. Semmai c’è l’intolleranza allo sperpero di denaro per inseguire il miraggio dell’integrazione di chi non vuole integrarsi. 

 

 

 

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