Mario Draghi richiamato in servizio: il rapporto che gli affida la Ue
Sicché, quel Drago di Mario Draghi torna a fiammeggiare in Europa. Bon. Per certuni, l’Ursula von der Leyen che chiede al nostro ex premier ed ex divinità della Bce «una delle grandi menti economiche europee», di «preparare un rapporto sul futuro della competitività europea»; be’ sarebbe come chiedere ai premi Nobel Franco Modigliani o Bob Solow (tra l’altro, maestri di Draghi) di presenziare a una riunione di condominio. Trattasi di un incarico un tantino riduttivo, diciamo. Per cert’altri, date le bombe a grappolo scaraventate, qualche giorno fa, da Draghi dall’Economist contro la conferma delle regole del Patto di stabilità; be’ si tratterebbe d’una imbarazzante blandizia. Ossia il tentativo della Presidente Ue di usare Draghi come consulente, onde arruffianarsi uno dei pochi ancora in grado si sussurrare ai mercati come si fa con i cavalli in procinto d’imbizzarrirsi.
ADDIO ALL’EREMO
Per altri ancora, l’abbandono dell’eremo umbro e il ritorno del tecnocrate invincibile alla vita politica – seppur di striscio avrebbe il sapore d’ un’analisi predittiva. Draghi riassaggia la politica, rimastica i numeri, i dati e le teorie monetariste per prepararsi ad un grande scranno europeo. Probabilmente ognuna di queste opzioni ha un fondo di verità. Comunque resta un dato di fatto che la Presidente della Commissione Europea, nel suo discorso fiume sullo «stato dell’Unione» di fronte al Parlamento Ue riunito in sessione plenaria, be’, si aggrappi al nostro. Il motivo è indirizzato verso il prossimo orizzonte elettorale: perché, ha argomentato l’Ursula, «tre sfide - lavoro, inflazione e ambiente commerciale -arrivano in un momento in cui chiediamo anche all’industria di guidare la transizione pulita. Dobbiamo quindi guardare avanti e stabilire come rimanere competitivi mentre lo facciamo».
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E qui ha evocato Draghi. L’ha evocato e l’ha assunto, come il Mister Wolf di Pulp Fiction, per risolvere problemi. Tra l’altro l’Ursula, mentre lo evocava e lo assumeva, era talmente attraversata da frisson draghiani da affermare: «L’Europa farà tutto il necessario, a qualunque costo, per mantenere il suo vantaggio competitivo». Ha detto proprio così Von der Leyen, «a qualunque costo», in inglese «whatever it takes». Espressione diventata leggendaria, nel giugno 2012, nel discorso in cui Draghi garantì che la Bce avrebbe preservato l’euro e salvato l’Eurozona. La seconda parte a della frase era «... and believe me, it’s enough, e credetemi sarà abbastanza». E mantenne le promesse. Le reazioni all’incarico Ue sono state di comune entusiasmo. Manfred Weber, presidente del Partito popolare europeo, ha ringraziato la presidente dell’invito rivolto a Draghi, perché «la competitività deve essere una priorità». Per la premier Giorgia Meloni, tutto questo «è una buona notizia», dato che Draghi «è uno degli italiani più autorevoli che abbiamo, presumo che possa avere un occhio di riguardo per la nostra nazione»; come dire: gli altri come Gentiloni gli occhi li chiudono. Epperò Draghi vibra d’uno standing magico.
Lo si osserva dai moderati di mezzo continente - specie i macroniani - che plaudono al ritorno del banchiere come fosse De Gaulle al secondo giro di boa. Anche se l’incarico del Drake - ammettiamolo - consta in un reportino che farà con la mano sinistra. Ma non è questo il punto. Il punto è che basta solo s’allunghi l’ombra dell’ex capo del governo su Bruxelles per insufflare ossigeno in un’Europa resa asfittica dall’inflazione al galoppo, dal calo industriale, dal Pil in bilico e dalla guerra in Ucraina. Quest’incarico di Draghi possiede un forte valore simbolico: è un avviso ai naviganti. Ne segna il ritorno sulla scena politica pure se non attraverso incarichi elettivi.
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VERSO IL CENTRO
C’è chi, come Luigi Bisignani sul Tempo, ne intravvede un’alleanza col Centro di Renzi (ma Draghi difficilmente si legherà a un partito, memore del precedente di Monti); e ne decantala statura da «vero pacificatore della politica italiana» alla guida del Consiglio Europeo al posto di Charles Michel (uno che s’è visto molto poco). E c’è chi, come Carlo Calenda draghiano senza Draghi, tende a riattizzarne il culto, immaginandolo nei panni della von der Leyen (una che s’è vista molto, ma ha quagliato poco). Ora, non è ancora dato di sapere quali saranno i dettagli del mandato, né quali risorse Draghi avrà a disposizione. Ma anche questo non è importante. Il suo pensiero è chiaro. Potrebbe essere smerigliato nella forma, ma è chiaro. Nell’editoriale sull’Economist Draghi scrive: «Per l’Europa tornare alle vecchie regole fiscali sarebbe il peggior risultato possibile. L’Europa deve ora affrontare una serie di sfide sovranazionali che richiederanno ingenti investimenti in un breve lasso di tempo, compresa la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione». Draghi è in linea con la Meloni, o la Meloni è in linea con Draghi, dipende dal lato visuale (da parte della Lega, invece, c’è «freddezza»). Sostiene il Drake: «Senza azioni, c’è il rischio che l’Europa non raggiunga gli obiettivi climatici, non riesca a fornire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a favore di regioni che si impongono meno vincoli. Per questo motivo, ritornare passivamente alle vecchie regole fiscali sarebbe il peggior risultato possibile». Competitività draghiana. Chissà cosa finirà in quel report...