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Europa, ora i prof di sinistra si scoprono anti-Bruxelles

Spartaco Pupo
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Nel coro degli intellettuali che da sempre si agitano sdegnati contro i sovranismi ora si elevano le prime note stonate. Fior di giuristi, sociologi ed economisti inglesi e tedeschi hanno avviato, da un anno a questa parte e "da sinistra", una serrata critica all'Unione europea, avvalorando le tesi di quanti, "da destra", ne hanno sempre denunciato l'insostenibilità. Questo "revisionismo" dell'integrazione europea, come potremmo chiamarlo, all'estero fa già discutere, mentre per molti degli accademici italiani l'Ue resta ancora un insindacabile modello di governance globale, una specie di paradiso terrestre.

Tra i primi a parlare di grave disfunzione democrazia dell'Ue è stato un autorevole sociologo ed economista tedesco, Wolfgang Streeck, già direttore dell'Istituto Max Planck di Colonia. Nel 2021, Streeck ha pubblicato un volume dal titolo "Zwischen Globalisierung und Demokratie: Politische Okonomie im ausgehenden Neoliberalismus" (Tra globalizzazione e democrazia: l'economia politica nel neoliberismo emergente), in cui sostiene che l'incessante spinta alla governance globale in Europa è accompagnata dalla parallela erosione democratica negli Stati membri. Streeck si dichiara un europeista pentito. A metà degli anni '80 era un fervente sostenitore di quella che all'epoca era chiamata la «dimensione sociale dell'Europa», fatta di sindacati forti e politiche sociali volte ad alleviare le disuguaglianze. Quando, tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, nacque il Comitato Delors, costituito dai governatori delle banche centrali degli Stati membri e guidato dall'allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors, gli parve subito chiaro che il progetto iniziale era già stato abbandonato.

 

 


DE-DEMOCRATIZZAZIONE
Chi vuole parlare di Europa - scrive oggi Streeck - non può non prendere atto della «de-nazionalizzazione» che conduce alla «de-democratizzazione» e alla conseguente crescita del capitalismo. La politica democratica richiede il noi inteso come «popolo», comunità politica di cittadini che hanno qualcosa in comune, a partire dalla lingua. In che modo - si chiede Streeck - un'Europa con 24 lingue ufficiali potrà essere governata democraticamente se si sottrae potere agli Stati nazionali? Per lo studioso tedesco, questo «globalismo di sinistra» non è che una fantasia neoliberista volta alla distruzione degli Stati nazionali per far posto a un progetto di giustizia universale che non tiene conto degli interessi veri dei cittadini. La lotta di classe nel «governo globale» viene riformulata come «conflitto culturale e morale» nella contrapposizione tra élite «illuminate» e masse «bigotte». Occorre allora una «fuga verso il basso», verso «un'Europa delle patrie» che sarà certamente più «pacifica» dell'attuale «regime» e porrà un freno a questa «sovranità diluita» dalla «unanimità obbligatoria» e inneggiante al «culto del libero mercato». Sempre l'anno scorso, nel bel mezzo della foga europeista contro la "minaccia" dei governi di destra di Ungheria e Polonia, è uscito, a Oxford, un volume dal titolo "Authoritarian liberalism and the transformation of modern Europe". L'autore, il giurista Michael Wilkinson, insegna alla London School of Economics, istituzione di tradizioni liberal-socialiste. Wilkinson, i cui «filosofi preferiti sono Marx e Arendt», descrive la trasformazione dell'Europa dal periodo tra le due guerre fino alla crisi dell'euro.


«PAURA DEL POPOLO»
Il concetto di «liberalismo autoritario», usato per la prima volta nel 1933 dal socialdemocratico Helmut Heller, è da questo autore applicato alla democrazia «vincolata» europea. Nel vecchio continente, a suo parere, è in atto una «depoliticizzazione» scaturita, in origine, dal terrore per gli «eccessi democratici», da una «paura del popolo» che ha radici ben più profonde dell'«immaginazione costituzionale» tipica del periodo tra le due guerre. L'ottimismo delle élite che vedevano nell'Ue un progetto in grado di fungere da modello mondiale appare sempre più disconnesso dalla realtà politica ed economica delle nazioni. E dalla crisi dell'euro (2010) è emersa una versione ancora più intransigente di liberalismo autoritario, fondata su uno stato di emergenza permanente.

 

 


Il noto storico inglese Perry Anderson, nume tutelare della New Left, nello stesso periodo ha portato alle stampe "Ever closer union? Europe in the west" (2021), in cui conduce un'analisi spietata dell'erosione democratica europea ad opera di un neoliberismo nemico del «bene comune». Per Anderson, «l'Unione Europea, come è venuta a formarsi e come guarda al futuro, parla continuamente di democrazia e Stato di diritto, mentre in realtà li nega». E ciò che è oggi era «inscritto in ciò che doveva essere» nella mente di chi l'ha ideata, ovvero «un'unificazione del continente dall'alto», non sempre trasparente e imposta come «diktat».


Anderson individua anche l'ideologo dell'attuale Ue: è Luuk van Middelaar, filosofo politico olandese, membro dal 2009 al 2014 del gabinetto di Herman Van Rompuy, primo presidente del Consiglio europeo. Per Anderson, costui è il «primo intellettuale organico dell'Ue», il cui pensiero incarna i principali mali odierni della sua creatura: la lontananza dal popolo delle élite di governo, l'opposizione «surrogata» e la «democrazia di facciata». Anderson demolisce tutti gli autoproclamati «nobili» obiettivi dell'Ue. Diritti umani? «Il record di disumanità europea nell'Egeo e in Libia parla da sé». Solidarietà? Il «pilastro europeo dei diritti sociali è rimasto lettera morta». Prevenzione della guerra in Europa? «È stata la Nato, non la Cee, a porre fine ai conflitti militari del passato». La verità, conclude Anderson, è che l'Ue ha tradito la democrazia, e l'integrazione europea, dal punto di vista strutturale, è «nata tecnocratica» e «tale è rimasta».


OSSIMORI GIURIDICI
Sulla stessa scia si muove il più recente "Against constitutionalism" (Cambridge 2022), di Martin Loughlin, anche lui giurista alla London School of Economics e noto per aver sostenuto che l'espressione pluralismo costituzionale è un ossimoro, una contraddizione in termini. Lo dimostra la convivenza impossibile di costituzioni diverse all'interno dell'Ue. Per Loughlin, la teoria giuridico-politica posta alla base del «progetto cosmopolita» europeo ha tradito tutti i suoi obiettivi iniziali. Doveva sfidare il dominio arbitrario dei leader assolutisti in nome della libertà e della democrazia, e si è rivelato un opprimente potere burocratico. Concepito come «filosofia di governo per conciliare ordine e libertà», è diventato uno strumento per la tutela di interessi di pochi a scapito di molti. E l'élite cosmopolita che ne è artefice agisce come insieme di «esseri depoliticizzati» che fa della «cittadinanza post-nazionale» una forma di «neoliberismo di sinistra», in cui viene meno il ruolo dei legislatori eletti, che in democrazia dovrebbe essere insostituibile. L'obiettivo principale di Loughlin, allora, è quello di difendere, a livello locale, la «democrazia costituzionale» dal costituzionalismo, contro l'arroganza del progetto europeista. Per questo egli strizza l'occhio alle «ribellioni populiste in tutta Europa», che sono il «segnale concreto del possibile rinnovamento della democrazia». Sullo sfondo di tutte queste riflessioni resta il fondamento irrinunciabile dell'autorità connessa alla sovranità nazionale, che la destra italiana, con in testa la premier Meloni, continua a difendere. È ora che anche le anime belle della sinistra italiana inizino a prenderne nota. 

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