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Pietro Senaldi, Marco Minniti e la crisi Russia-Ucraina: "Ecco perché Putin non farà la guerra"

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«La situazione attuale in Ucraina mi ricorda la crisi dei missili a Cuba nel 1962, con le armi sovietiche a una manciata di miglia dagli Stati Uniti e il mondo in tensione per la paura dello scoppio di una guerra atomica». Oggi le parti si sono invertite, è la Russia che cerca di sventare il pericolo di avere la Nato sotto casa, in Ucraina, e per farlo addensa truppe al confine, minacciando l'invasione. Il presidente americano Biden si preoccupa a giorni alterni, complicando il quadro con gaffe che evidenziano come, per gli Usa, lo scenario sia marginale e un blitz di Putin sarebbe finanche sopportabile. Ne deriva l'inquietudine degli alleati europei, in prima linea Polonia e Ungheria, che degli stivali moscoviti sul territorio hanno brutti e non distanti ricordi. «Forse alla fine in Ucraina non scoppierà la guerra, perché se Putin avesse voluto invadere lo avrebbe già fatto, come in Crimea nel 2014» confida Marco Minniti, l'ex ministro dell'Interno del Pd passato per sua fortuna un anno fa dai banchi del Parlamento alla presidenza di Med-Or, fondazione creata da Leonardo per promuovere le relazioni con il Mediterraneo, il Sahel nonché il Medio e l'Estremo Oriente. «Tuttavia, se hai uomini armati in trincea e miliziani in circolazione, l'incidente, e la conseguente escalation bellica, non si possono escludere. Anzi! Per questo la tensione va, immediatamente, allentata».

C'è chi dice, anche qui in Occidente, che Putin non ha tutti i torti: avere la Nato ai confini è un po' troppo per la Russia, non era nei patti...

«L'Ucraina è diventata un simbolo, e perciò il problema è di delicata soluzione. Il tema è se la possibilità di un Paese di entrare nella Nato deve essere sottoposta, di fatto, all'approvazione di uno Stato che non appartiene all'Alleanza Atlantica. In tal caso, significherebbe riconoscere a Mosca il ruolo di minoranza di blocco nel mondo. È una partita cruciale per i rapporti tra le democrazie occidentali e la Russia».

Qual è il gioco di Putin?

«Non credo che cerchi la guerra aperta, non se la può permettere, neppure a livello locale. La sua strategia è perseguire, con un rischio calcolato, un progressivo slittamento delle posizioni occidentali, dai principi alle alleanze, al controllo dei territori. È una continua pressione geopolitica per far apparire possibile quello che, ieri, sembrava impossibile. Per questo l'Occidente non può perdere la partita ucraina».

Ma la Russia è ancora un nemico pericoloso?

«Putin sogna di ricostruire, almeno a livello di influenza, una Russia imperiale».

E ci sta riuscendo?

«Per certi versi è andato finanche oltre. Ha esteso l'influenza russa sull'Artico e sul Mediterraneo, orientale e centrale, centrando obiettivi mai realizzati dell'impero zarista».

La guerra però è altra cosa...

«Oggi ci sono alternative alla sfida bellica. Pensi alla crisi dei profughi in Polonia: la Bielorussia di Lukashenko, di cui Putin è lord protettore, ha attratto migliaia di disperati con l'illusione di aprire loro un canale verso l'Europa, poi li ha spinti verso i confini polacchi servendosene come massa di pressione geopolitica. Sono tutte mosse di una, probabilmente, unica strategia della tensione e della pressione nei confronti dell'Europa, dell'Occidente».

Se l'Ucraina è la Stalingrado dell'Europa, cosa dovrebbe fare l'Europa per difendersi?

«Dare una risposta unitaria forte, mantenendo una capacità di dialogo che non va confusa con l'esitazione».

In soldoni?

«La Russia ha una capacità di pressione forte sull'Europa, e in particolare sulla Germania, visto che a livello energetico dipendiamo da lei. Ma è altrettanto evidente che se Unione Europea e Stati Uniti applicano sanzioni mirate sui gangli vitali del potere russo, Mosca ne sarebbe colpita in maniera mortale. C'è una reciproca dipendenza, con la peculiarità che l'Occidente è molto più ricco del suo antagonista».

Perché Putin ha alzato la cresta proprio ora?

«Per quanto accaduto nell'agosto scorso in Afghanistan. Il frettoloso ritiro americano ha svelato in modo icastico tutta la fragilità dell'Occidente. È stata una sconfitta durissima: se vai in un Paese e prometti democrazia, ti fai seguire da una parte della popolazione e poi la abbandoni, rompi un patto non scritto con quel popolo. La democrazia non è cinica, comporta, anche, un coinvolgimento ideale; se lasci soli quelli che hanno creduto in te, perdi tutto e paghi un prezzo salato. Quella fuga drammatica da Kabul è stato un fatto epocale, il segno della sconfitta drammatica dell'Occidente».

C'è stato un effetto slavina?

«È apparso per la prima volta possibile che l'Occidente, se sottoposto a pressioni, finisca per accettare condizioni impensabili: quando gli USA e la coalizione internazionale iniziarono la guerra, per rispondere al più drammatico attacco terroristico della storia, avrebbero mai pensato che, nel ventesimo anniversario delle Torri Gemelle, i talebani sarebbero ritornati al governo dell'Afghanistan. Dopo Kabul non ci può essere Kiev. L'Ucraina non può, non deve essere lasciata sola. È molto importante che, anche in queste ore Usa, Nato, Europa ed Uk stiano sviluppando il massimo di deterrenza. Il mondo è già in subbuglio».

L'Occidente sta diventando sempre più piccolo?

«Guardi cosa sta accadendo in Africa. L'Algeria è il primo Paese africano a produrre un vaccino anti -Co vid, e lo ha fatto con brevetti cinesi. Pechino sta conquistando economicamente e culturalmente il Continente: le più importanti università africane in realtà sono quelle cinesi e sempre la Cina, grazie, anche all'influenza che ha sull'Africa, è il primo controllore al mondo di metalli delle terre rare, che sono fondamentali per le nuove tecnologie e la transizione ecologica. Gli Usa sono secondi e con un certo distacco».

 

 

 

Ma tutto questo cosa c'entra con Kabul e con l'Ucraina?

«La Cina, che è ricca, gioca la partita economica. La Russia, sempre in Africa, gioca quella politica e militare. Il Sahel francofono è sempre di più destabilizzato. In Burkina Faso c'è appena stato un colpo di Stato, in Mali ci sono state imponenti manifestazioni di massa, da Timbuctu a Bamako, antifrancesi e filo russe. Sul territorio sono già schierati i milizia ni della Wagner, i mercenari russi guidati dall'ex cuoco di Putin. Già presenti in Cirenaica. Più ad est nel Corno d'Africa: in Sudan c'è stato, solo pochi mesi fa, un golpe ed in Etiopia siamo nel pieno di una guerra civile che può portare a una gravissima crisi alimentare e umanitaria».

Tutto questo nell'indifferenza dell'Europa e degli Usa?

«Più che altro nell'incapacità di incidere. La vicenda libica è illuminante».

Già, un tempo in Libia l'Italia aveva un certo peso...

«La comunità internazionale si era illusa che il 24 dicembre scorso, settantesimo anniversario dell'indipendenza dello Stato, la Libia sarebbe andata al voto. Invece, il voto non c'è. Rinviato a data da destinarsi. Sfiduciato, di fatto , il governo in carica il parlamento di Tobruk sta lavorando per farne un altro. Con il rischio di avere due governi che non si riconoscono. E sullo sfondo lo spettro della divisione del paese in due zone d'influenza. Una sotto l'influenza russa ed egiziana, l'altra sotto quella della Turchia e del Qatar. E la Libia è dall'altra parte del Mediterraneo. Il Sahel è il confine meridionale dell'Europa».

Siamo nel mezzo di una guerra mondiale e non ce ne stiamo rendendo conto?

«No. Non è guerra, ma già da molto non è pace. Alcuni studiosi anglosassoni l'hanno, felicemente, chiamata "unpeace". C'è un quadro di permanente e acuta instabilità: conflitti cibernetici, pressioni migratorie, scontri ai confini. E poi il terrorismo: l'Africa sub-sahariana è ormai diventata tra i principali baricentri mondiali del terrorismo, ospitando gli eredi dell'Isis e di Al Qaeda, in Somalia imperversa Al Shabab, nella parte curda della Siria l'Isis ha assaltato numerose carceri liberando migliaia di ex combattenti e per la prima volta nella storia una capitale araba, Abu Dhabi, per di più sede dell'Expo mondiale, è stata colpita con droni e missili. Un attacco portato dai ribelli dello Yemen».

Il tutto nell'indifferenza delle Nazioni Unite?

«Le istituzioni multilaterali internazionali stanno vivendo il punto più basso delle loro capacità. L'Onu, per fare un esempio, ha mandato in Libia due inviati speciali, che si sono dimessi, ed è dovuto intervenire il segretario generale per sostituirli con un suo, anzi una sua, consigliere speciale perché il Consiglio di Sicurezza non riusciva ad accordarsi».

Torniamo al punto di partenza: noi cosa ci possiamo fare?

«L'Europa, se vuole giocare un ruolo in questa instabilità, e la storia e la contingenza glielo impongono, deve dotarsi di una capacità di difesa autonoma, perché su essa si basa ogni capacità di trattativa e di proiezione strategica, sia a Est che a Sud».

 

Indipendentemente dalla Nato?

«Ce lo chiedono gli stessi Stati Uniti, che vogliono avere un interlocutore fidato sullo scacchiere mediterraneo e su quello russo. L'esercito europeo non sarebbe alternativo ma complementare all'Alleanza Atlantica. Ogni giorno che passa è un giorno perduto».

Insomma, dobbiamo diventare grandi...

«Nel mondo ci sono due linee di faglia: il Pacifico, dove si fronteggiano Usa e Cina e il Mediterraneo, che tiene insieme Europa e Africa. Questo è un fronte comune di tutta la Ue e il problema va affrontato a Bruxelles, non a Roma. Biden ha confermato, su questo in continuità con Trump, una scelta strategica, secondo la quale il confronto principale per gli Stati Uniti è con la Cina, e il resto sono teatri complementari che gli alleati devono imparare a gestire».

Siamo all'altezza del compito?

«Dopo il crollo del muro di Berlino il mondo bipolare non esiste più. Lo scenario è apolare, ci sono grandi potenze ma nessuna è capace di costruire un nuovo ordine globale».

Come lo si costruisce, visto che l'Onu è sparito?

«Non è alle porte un rilancio del multilateralismo cooperativo. Temo non ci siano più le condizioni di nettezza nei rapporti e nelle gerarchie che ne erano il presupposto. Il futuro è nella convivenza di cooperazione e competizione. Devi tenere alta la competizione sui valori occidentali, e quindi la democrazia, per cui a un Paese, anche l'Ucraina, che confina con la Russia, non può essere impedito di entrare nella Nato, e allargare la cooperazione rispetto alle sfide globali che tengono insieme il pianeta: terrorismo, risorse energetiche, cambiamenti climatici».

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