Uno che se ne intendeva come Winston Churchill, e che nella sua vita ebbe a che fare con un tipo come Iosif Stalin, fissò il cuore della questione in parole rimaste scolpite nel marmo: «La Russia è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma». Come vedremo, molti decenni dopo, siamo ancora lì.
Il mondo – e anche questo giornale – ha guardato con motivata speranza quella foto potentissima dell’altro ieri a San Pietro: Trump e Zelensky l’uno di fronte all’altro, entrambi – di tutta evidenza – con l’aria di quelli che vogliono davvero capirsi e non possono permettersi di sciupare un’occasione più unica che rara. Tutto, a partire dalla solennità del luogo e dall’unicità del momento, sottolineava la chiamata della storia, non solo la scrittura di una pagina di cronaca.
Dal punto di vista di Zelensky, si trattava di ottenere garanzie di sicurezza post -bellica per il suo paese, magari tirando la corda, ma senza spezzarla, come il leader ucraino aveva purtroppo rischiato di fare alla Casa Bianca. Dal punto di vista di Trump, il tema era e rimane quello di fermare un bagno di sangue, senza però dare la sensazione di concedere troppo alla Russia, o – mettiamola così – di esercitare più pressione su Kiev che su Mosca.
E i due – diciamolo – hanno mostrato al mondo il proprio lato migliore: niente wrestling, niente show, dichiarazioni misurate e costruttive dopo l’incontro, molta riservatezza. Merito loro e anche di chi – a partire dal governo italiano – ha pazientemente scommesso su quel dialogo, facilitandolo e sostenendolo anche nelle settimane in cui sembrava sull’orlo del naufragio. Quanta mediocrità condominiale – invece – in chi in queste ore ha cercato di inventarsi una marginalizzazione di Giorgia Meloni, per esaltare – figurarsi – il solito Emmanuel Macron, sempre più evanescente nella sostanza e in compenso vacuamente presenzialista nel tentativo di infilarsi in una foto, di guadagnare vanamente una sedia: incontrando, come Libero vi racconta oggi, il muro di Trump.
E allora? E allora – adesso – si torna a Churchill e a quell’intrico di rebus, misteri ed enigmi che è la Russia. Prima e dopo la foto di Trump e Zelensky a San Pietro, dal Cremlino sono giunti ben quattro messaggi contraddittori. Il primo addirittura fiammeggiante, trattando gli ucraini da «neonazisti» prossimi alla sconfitta, altro che dialogo. Il secondo decisamente più morbido, con una disponibilità a «riprendere i colloqui con Kiev senza precondizioni». Poi un terzo ieri, dopo la sfuriata del giorno prima di Trump, il quale era davvero sembrato perdere la pazienza con Mosca: e così ecco il portavoce putiniano Peskov con una delle sue note in chiaroscuro. Da un lato, la sottolineatura di come «la posizione di Trump coincida in molti elementi con quella russa»; dall’altro, una frenata («è troppo presto per parlare di condizioni specifiche»); dall’altro ancora, l’evocazione di una trattativa riservata («Questo lavoro non può essere condotto in un formato pubblico, può essere solo in un formato discreto»). E infine un quarto messaggio, a dir poco indecifrabile, attraverso il Ministro degli Esteri Lavrov, secondo cui Mosca è «pronta a concludere un accordo» ma «continuerà a colpire i siti usati dalle forze armate ucraine». Come si vede, c’è ragionevole materia sia per il pessimismo che per l’ottimismo.
Forse, a questo punto, può diventare decisivo il fattore tempo. Se si stringe, anche sfruttando l’emozione positiva dell’incontro dell’altro giorno a San Pietro, oltre che la chimica finalmente fortunata tra Trump e Zelensky, si può intravvedere un po’ di luce in fondo al tunnel. E non a caso Washington sta cercando di accelerare, anche mettendo pressione sulla Russia. Se invece si dovesse sciaguratamente sciupare questo momento magico (e non facilmente ripetibile), allora, dalle parti di Mosca e non solo, avrebbero buon gioco quanti puntano a nuove offensive e a una prospettiva di guerra indefinita. In un senso o nell’altro, è adesso il momento decisivo.