Il 30 aprile 1975, esattamente mezzo secolo fa, cadeva Saigon. Cadeva, assieme a tutto il Vietnam del Sud, nelle mani dei guerriglieri marxisti Viet Cong, che avevano a lungo sabotato il Paese dall’interno, e delle forze armate bolsceviche del Vietnam del Nord. Cadeva, Saigon, nella morsa del comunismo. Quel giorno gli Stati Uniti d’America, che da 10 anni erano entrati in guerra a fianco dei sudvietnamiti, si ritirarono in fretta e male, lasciando sul campo tantissimi morti e tutte le speranze, dopo avere deciso la sospensione degli aiuti militari agli alleati. Si concludeva così la lunga marcia del comunismo indocinese, che, diviso fra obbedienze sovietica e maoista, ma sempre compatto sull’obiettivo, mitragliava sin dal 1946 l’Occidente, prima ottenendo nel 1954 la sconfitta della potenza coloniale francese, poi appunto sbaragliando gli Stati Uniti. Appena prima di Saigon, il 17 aprile, la Cambogia cadeva nelle mani dei Khmer Rossi e in dicembre sarebbe stata la volta del Laos.
Tutta la guerra in Indocina fu il crinale della Guerra fredda e il suo apice fu proprio la Guerra del Vietnam. Nelle risaie e sui fiumi maestosi, nelle jungle e nelle paludi, per terra, mare e aria, si confrontarono il mondo libero e il mondo comunista, dopo che la grande prova generale della Guerra di Corea era finita nello stallo del 1953.
Il comunismo? Un orrore nazionalista e razzista
Proporzioni, efferatezza, cecità ideologica: forse è stato il più grande orrore umano contro il gen...Il Vietnam fu il campo finale dell’ultima partita. A fianco del Vietnam del Sud che guardava all’Occidente si schierò infatti tutto l’Occidente, non solo gli Stati Uniti che ne furono la punta di diamante. Con il Partito Comunista del Vietnam, che da Hanoi, nel Nord, guidava l’assalto, stavano tutti i regimi e i partiti comunisti del mondo non disturbati da alcun distinguo e “deviazionismo” vero o presunto. Fu uno scontro epocale, il banco della prova diretta a lungo rimandata, lo stress-test del confronto Est-Ovest per misurare la tenuta dell’uno e dell’altro, per capire quanto spingersi avanti. In quel teatro, dai primi degli anni 1960 gli Stati Uniti la fecero da protagonisti.
Gli Stati Uniti sono sempre un insieme enigmatico e affascinante di nobiltà e miseria. Di errori, in Vietnam, ne commisero tanti. Il peggiore fu l’assassinio del presidente sudvietnamita Ngo Dinh Diem, ammazzato nel 1963 dai servizi segreti americani con l’avallo del presidente John F. Kennedy. Educato dai francesi, cattolico, fiero anticomunista, Diem fu tra i primi (e i pochi?) a capire che le lotte anti coloniali erano solo la copertura dell’avanzata comunista e decise che con i comunisti non avrebbe avuto a che fare. Credette negli Stati Uniti e gli Stati Uniti, che pure lo avevano favorito e sostenuto, giudicarono il suo governo troppo autoritario, digerendo male soprattutto l’estromissione dagli assetti economici del Paese. Gli Stati Uniti, che entrando in guerra nel 1965 si erano creduti a un passo da una vittoria facile, senza Diem non furono capaci di arginare un’acutizzazione del coinvolgimento militare che alla fine li ha travolti. Fu uno degli spettacoli più imbarazzanti della già imbarazzante parabola politica di Kennedy e del Partito Democratico. Così gli Stati Uniti hanno perso: il Vietnam, la guerra, la faccia e il confronto con il comunismo.
La guerra non la persero sul campo, dove scrissero anche pagine di eroismo vero:la persero nelle università e nelle piazze in patria, dove la Sinistra ribaltò la verità storica e iniziò un’offensiva woke prima del tempo per insegnare a tutti che essere una valida alternativa al marxismo sia cosa di cui vergognarsi. La faccia la persero ridicolizzati dai contadini-guerriglieri di Ho Chi Minh, che, bicicletta e moschetto, furono disposti a ogni sacrificio per battere il nemico. E persero il confronto con il comunismo perché mai come in quel momento il blocco orientale si sentì prossimo al trionfo globale totale. La caduta di Saigon rinsaldò i ranghi e il comunismo prese nuovo vigore internazionale, dall’Africa a (di lì a poco) l’Afghanistan, mentre l’Europa, segnatamente l’Italia, il Paese con il Partito Comunista più forte del mondo libero, precipitava negli anni di piombo.
Ci volle un decennio per riparare lo smacco; ci volle Ronald Reagan, nel 1980, per lavare l’onta pensando che il comunismo si potesse non solo contenere, non solo lisciare, ma battere, battendolo. Eppure da mezzo secolo in qua, a destra e a sinistra, si ripete che il coinvolgimento nella Guerra del Vietnam fu un errore imperdonabile, che bisognava starsene lontani, che avevano ragione i poveri indocinesi diseredati a contestare i colonialisti rapaci, persino che Washington e i suoi alleati furono soltanto dei macellai e dei becchini.
Invece no. La guerra del Vietnam andava combattuta. Era una crociata contro il comunismo, e come tutte le crociate fu preparata male, messa in atto non meglio, tirata là. Ma sempre come tutte le crociate è stata fondamentalmente una guerra giusta per una posta in gioco imprescindibile. Lo sbaglio più grande commesso nella Guerra in Vietnam fu infatti non vincerla. Chi pensa il contrario è solo un perdente.