Forse Jorge Mario Bergoglio non è stato così intimamente sudamericano in nulla come nel rapporto con gli Stati Uniti. Che è parso spesso segnato alla radice dalla diffidenza culturale verso la terra del capitalismo compiuto, quasi un “a priori” negativo che il Francesco gesuita e tecnicamente uomo di mondo non ha mai riservato, ad esempio, a regimi totalitari repressori della fede cristiana (il caso di scuola è la Cina comunista). Se lo scenario “geopolitico” è questo (“The Pope vs America”, sintetizzò brutalmente l’intellettuale britannico Paul Valley su Politico anni fa) si può comprendere meglio la principale faglia di tensione del suo Papato: quella con la Chiesa cattolica americana.
Questa annovera al proprio interno una robusta filiera conservatrice, diciamo wojtylian-ratzingeriana, erede delle grandi battaglie contro il totalitarismo ateo sovietico e per l’identità dell’Occidente. Quest’anima, radunata attorno alla rivista First Things, ha conosciuto un’evoluzione parallela a quella più generale della cultura repubblicana, transitando sempre più da un cattolicesimo neoconservatore e “bushiano” a uno identitario e anti-globalista. Semplificando politicamente, è il cattolicesimo à la Vance, che è via via entrato in rotta di collisione col messaggio pastorale e con la prassi di governo della Chiesa di Francesco. Come diceva lo stesso Pontefice nell’agosto 2023, conversando con la comunità dei gesuiti in Portogallo: «Negli Stati Uniti la situazione non è facile: c’è un’attitudine reazionaria molto forte, organizzata, che struttura un’appartenenza anche affettiva».
A «tutte queste persone» Francesco intendeva «ricordare che l’indietrismo è inutile, bisogna capire che c’è una giusta evoluzione nella comprensione delle questioni di fede». Tra «queste persone», ci sono porporati di caratura intellettuale massima come il cardinale statunitense Raymond Leo Burke (insieme a Robert Sarah il vero punto di riferimento dei ratzingeriani non edulcorati), coautore e mente dei Dubia, interrogazione critica all’enciclica bergogliana “Amoris laetitia”. Da un mese a questa parte, Burke è segnalato come presenza fissa a Roma, certo per partecipare ai momenti pubblici di preghiera, ma sicuramente con più di un retropensiero all’imminente Conclave.
Il quale costituisce il possibile redde rationem della Storia per tutti coloro che il Papa argentino chiamava «indietristi», ma che dal loro punto di vista provano a guardare avanti, oltre l’eterno presente, tra l’ideologia e il marketing, in cui ritengono che Francesco abbia immerso il cattolicesimo (Burke già nel 2014 dichiarò che «vi è un forte sentore che la Chiesa sia come una nave senza nocchiero»). Un fronte “conservatore”, frastagliato ma coagulabile attorno alla gerarchia americana, che ha più di una possibilità di dare le carte. Perché se è vero che Papa Francesco negli anni ha costruito un Collegio Cardinalizio assai ritagliato sulla sua agenda, è altrettanto vero che le nuove leve hanno scarsa dimestichezza con gli arcani imperii curiali e non costituiscono un fronte unico, ma sono piuttosto permeabili a quel genere di iniziative di “lobbing” pastorale in cui la forza della Chiesa americana potrebbe risultare il fattore decisivo.
Non osando spacciarci per esperti di Spirito Santo e abissi teologici, ci limitiamo a registrare una costante della cronaca politica degli ultimi anni: il netto, crescente, laico ma non ignorato in Vaticano Spirito del Tempo, chiaramente sbilanciato verso un conservatorismo dei principi e delle identità. A partire, ovviamente, proprio dall’attuale guida dell’America e del mondo libero: Donald Trump (che ieri ha salutato Papa Francesco come «un uomo buono che ha lavorato duramente e amato il mondo»). Sapete chi, secondo la Bild di qualche settimana fa, The Donald sognerebbe come nuovo Pontefice? Proprio lui, Raymond Burke. Al di là del nome (difficile), nei prossimi giorni non guardate solo alle stanze vaticane, ma al movimento che si dipana tra lì e Washington. Perché non è affatto detto che sia ancora “The Pope vs America”.