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Dossier Covid, la bomba degli Usa contro la Cina

di Claudia Osmetti domenica 20 aprile 2025

3' di lettura

«L’amministrazione Trump è stata molto chiara: a differenza di quella precedente, noi saremo i più transparent (non serve la traduzione, si capisce perfettamente: “trasparenti”) nella storia degli Stati Uniti». Kaelan Dorr, di professione portavoce per la Casa Bianca, non usa mezzi termini: «Nulla», ribadisce, «ci impedirà di innovare e trovare modi creativi per rispettare questo accordo» stipulato coi cittadini. È così, attraverso una nota di poche righe ma puntuale, che Washington spiega all’America perché ha deciso di mettere on-line, utilizzando un link governativo che fino a due giorni fa rimandava a una serie di informazioni sulla malattia e sui vaccini, la pagina “Lab Leak” (sottotitolo: «Le vere origini del Covid-19).

Non tanto il braccio di ferro col Dragone di Xi Jinping, non la guerra dei dazi sullo sfondo e nemmeno la battaglia interna coi democratici, i loro esperti e la loro gestione della pandemia: piuttosto una sorta di “operazione chiarezza”, nel senso di essere il più diretti, aperti e senza filtri possibile. Tanto più che, per esempio, il deputato del Grand old party James Comer, che tra l’altro è il presidente del comitato che ha svolto la più recente delle indagini sulle origini del Covid, è il primo che si premura di elogiare il tycoon per l’iniziativa e commenta, entusiasta: «Il presidente Trump sta giustamente fornendo al popolo americano la verità sulla pandemia».

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Fa parlare, dall’altra parte dell’Atlantico, la decisione di promuovere in rete (e ufficialmente) la teoria della fuga da un laboratorio di Wuhan come inizio dell’emergenza sanitaria del 2020: anche se, in realtà, non è nuova e non è neppure recente. Il dibattito tiene banco da oltre cinque anni, nel mezzo ci sono state indagini da parte di agenzie federali e organizzazioni sanitarie (anche private), si è espressa a tal proposito pure qualche commissione al Congresso Usa e a gennaio la Cia, l’agenzia di intelligence di Langley, ha parzialmente corretto la sua posizione sostenendo che sì, quell’ipotesi che ora i repubblicani di Trump corrono a mettere nero su bianco in internet, è la spiegazione più plausibile di quanto sia successo (nonostante provarlo col rigore scientifico sia un’esercizio dal «basso grado di attendibilità»). Insomma: «Non abbiamo la certezza che il virus non sia scappato da un laboratorio», come sostiene, qui in Italia, la dottoressa Ariela Benigni che fa il segretario scientifico e il coordinatore del settore ricerche a Bergamo e Ranica per conto dell’istituto Mario Negri, però è possibile neanche affermare il contrario.

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«Sono usciti dei lavori», continua Benigni, «e sono stati fatti molti studi sulle sequenze del virus rispetto a quello presente negli animali macellati vivi al mercato umido di Wuhan e si è visto che questi ultimi, in pratica, sono stati quelli che hanno dato origine alla pandemia perché proprio dal punto di vista delle sequenze sono molto simili. Ci sono luci e ombre, da una parte perché non sappiamo effettivamente e non possiamo dire con assoluta precisione cosa sia accaduto nei laboratori cinesi, dall’altra perché è molto probabile che, invece, il virus sia derivato da questi animali infettati».

I virologi (di mezzo mondo, non solo quelli statunitensi) ci vanno cauti, la politica osa un po’ di più e nello scacchiere mondiale conta anche il fatto che Pechino (per il momento) pare non voglia esprimersi, cosa che invece aveva fatto (eccome) a inizio anno dopo la modifica della posizione ufficiale della Cia (tre mesi e mezzo fa il governo cinese aveva bollato come «estremamente improbabile» la versione americana e aveva accusato gli Stati Uniti di «politicizzare e strumentalizzare la questione della ricerca delle origini (dell’emergenza, ndr)».

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