Superato, per ora, solo da Nicola Fratoianni, al quale il bianco dell’abito indossato nell’occasione da Giorgia Meloni ha ispirato addirittura l’accusa di essere andata e arrivata alla Casa Bianca per fare «la cameriera» del presidente americano, Giuseppe Conte sul fronte delle opposizioni si è improvvisato questa volta arbitro, addirittura. Ed ha assegnato la vittoria della partita con due a zero a favore di Donald Trump. Il vecchio amico Trump, che nel 2019, anche allora alla Casa Bianca, pluralizzandone generosamente il nome, da Giuseppe a Giuseppi, lo aiutò a modo suo a restare a Palazzo Chigi, a Roma, pur cambiando, anzi rovesciando la maggioranza. Col Pd di Nicola Zingaretti, spinto da Matteo Renzi ancora domiciliato politicamente al Nazareno, al posto della Lega di Matteo Salvini. Il cui errore principale fu quello di avere preso sul serio Zingaretti, che si era impegnato fuori e dentro il suo partito a non muoversi dall’opposizione, nei rapporti con Conte, senza passare per le elezioni.
I debiti si pagano, diciamo così. E Conte ha pagato il suo assegnando appunto con un netto risultato la vittoria a Trump nella partita con la Meloni. Che tuttavia non è andata alla Casa Bianca per segnare alla porta del presidente, e in qualche modo ammiratore, americano ma semplicemente e più costruttivamente per preparare altre partite. Soprattutto quella fra lo stesso Trump e l’Unione Europea, magari con un incontro, a Roma o dintorni, fra il presidente degli Stati Uniti e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Dove penso - ad occhio e croce, magari sbagliando, ma spero di no - più ancora dei dazi, pur con tutta l’importanza che hanno, per carità, si possa parlare dell’Ucraina. E del rischio che corre di dovere subire una pace utile più all’imperialismo zarista, o post-sovietica, della Russia di Putin che alla sicurezza dell’Europa. E, più in generale, dell’Occidente che Meloni si è augurata alla Casa Bianca «grande di nuovo» - come Trump si è proposto di fare soprattutto per gli Stati Uniti- e «più forte».
Sicuro com’è di essere anche spiritoso, oltre che ambizioso, pure di tornare a Palazzo Chigi dove ritiene ancor di essere stato tradito anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella mandando al suo posto Mario Draghi; sicuro, dicevo, com’è di essere anche spiritoso, Conte ha riconosciuto alla Meloni solo il merito di avere evitato alla Casa Bianca di vendere «un pezzo del Colosseo» a Trump. Magari per lasciarlo tutto in intero a disposizione del presidente del MoVimento 5 Stelle, odi ciò che ne rimane, per altri raduni e comizi contro il governo in carica. Come quelli svoltisi il 5 aprile scorso.
In fondo la politica è fatta anche di qualche piccola soddisfazione, diciamo così, come quella presasi da Conte, appunto, tornando dalle parti del Colosseo non per andare a trovare Beppe Grillo, quando era ancora il garante e insieme fondatore del movimento pentastellato, e riceveva i suoi ospiti in un albergo con vista sui fori imperiali, ma per prenotare da solo e direttamente questa volta Palazzo Chigi, se e quando dovessero riuscire quelli che allo stato delle cose, per ammissione di alcuni anche nel Pd, sono solo i miracoli attesi da un fronte unitario di alternativa al centrodestra e di una sua vittoria in elezioni politiche, anticipate o ordinarie.
Poi, si sa, dal Colosseo alla sede della Presidenza del Consiglio si può anche correre a piedi, senza neppure la macchina, magari sognando anche la soddisfazione di passare davanti alla Meloni che chiede l’elemosina sotto il balcone fatidico dell’altrettanto fatidico Palazzo Venezia.
Un sogno, questo, che fa il paio con quello di Stefano Rolli che in una vignetta sul Secolo XIX ha fatto di un corrucciato e riconoscibilissimo Conte, al singolare, che vede e ascolta corrucciatissimo in televisione un Trump che moltiplica questa volta il nome della Meloni: Giorgi...