La sentenza della Corte suprema britannica sulla definizione del genere in base alla biologia è stata accolta con un sospiro di sollievo negli ambienti che si sono opposti in questi anni ai dettami della cultura woke. Come più volte è stato osservato, questa cultura, in nome della non discriminazione e dell’inclusione delle più disparate “minoranze”, ha finito a sua volta per escluderne e discriminarne molte altre. In particolare, nel caso su cui la Corte è stata chiamata ad esprimersi, la discriminazione, fin troppo evidente, era contro le donne. Le persone transgender, cioè che sono nate maschi ma non si riconoscono nel loro sesso biologico, pretendevano di accedere alle “quote rosa” che una legge scozzese prevedeva per loro.
La giustificata soddisfazione per il riconoscimento che il sesso è binario non deve però impedirci di porre una domanda ancora più radicale, a monte: il sistema delle quote è in sé giusto, oppure è anch’esso uno strumento di discriminazione, sia pur più sottile? Per rispondere alla domanda, bisogna subito sgomberare il terreno da alcuni equivoci che potrebbero sorgere. Prima di tutto, va affermato con forza che il processo che ha portato le donne a conquistare sempre nuove posizioni nell’ultimo secolo è stato un fattore di progresso e di avanzamento per l’intera società.
Secondariamente, va constatato che, nonostante gli enormi passi in avanti fatti, il gap fra i due generi è, soprattutto in alcuni settori, ancora forte. Giusto è perciò, in terzo luogo, che le donne combattano per una completa uguaglianza di diritti e doveri fra i generi e per l’abbattimento di tutte le barriere che sono rimaste in piedi per il raggiungimento del traguardo. Questa battaglia dovrebbe però svolgersi nella società e non essere indotta per via legale dallo Stato. Essa dovrebbe corrispondere a un mutamento della mentalità collettiva, ancora più radicale di quello che finora c’è stato. Un mutamento che deve partire ed essere spinto dal basso, dalle coscienze dei singoli e di ognuno.
Un mutamento che deve altresì sostanziarsi in una uguaglianza di opportunità per tutti. Quanto alle leggi, esse, in uno Stato di diritto, devono essere imparziali e universali, premiare il merito e le capacità di ognuno, uomo o donna che sia. Questo permetterà alle donne stesse di essere rispettate per quello che valgono e non per il semplice fatto di appartenere ad un sesso piuttosto che all’altro, quasi fossero una specie da proteggere come i panda nel mondo animale. Anzi, una coscienza femminista matura dovrebbe pretendere questa uguaglianza di trattamento, che è poi una forma di rispetto per sé che scansa a monte l’accusa possibile di essere state privilegiate.
A ben vedere, quello delle quote è un tipico caso di “azione positiva”, la quale ripugna ad un liberale per i suoi aspetti dirigistici ed eterodiretti. Il processo dovrebbe essere sempre dal basso in alto, cioè dalla società allo Stato, e non viceversa. Per fare un esempio concreto: se io per assegnare un compito preciso devo rispettare le quote anche se non ci sono donne (ma potrebbe essere anche uomini) all’altezza, io mi batterò perché le donne (o gli uomini) raggiungano un determinato standard e possano competere ad armi pari ma non abbasserò il livello dello stesso per rispettare le “quote” con grave danno per tutta la società. Dopo la sua sentenza, la Corte inglese ha tenuto a sottolineare che la sua decisione non significa che i trans non vadano protetti dalle discriminazioni. Giusto. Ma mi chiedo: quale altro modo c’è di proteggerli se non giudicando anche loro per quello che sono e valgano? In fin dei conti, il concetto cristiano di persona e quello liberale di individuo sono i concetti più universali e meno discriminanti che la civiltà umana abbia mai concepito.