Ci sono le teorie sulla follia distruttrice di Donald Trump. E poi ci sono i fatti. Le prime ci spiegano che il tycoon è fuori controllo, che la reindustrializzazione degli Stati Uniti non si può fare con la bacchetta magica, che le piccole e medie imprese americane non hanno le risorse pere investire in nuovi impianti, che le fabbriche non si costruiscono in un giorno e che, se anche fosse, non ci sarebbe la manodopera necessaria a farle funzionare perché la Casa Bianca sta espellendo, pardon, “deportando” frotte di immigrati solo per il gusto di fotografarli con le manette ai polsi. Teorie costruite su tante balle e qualche elemento di verità. Tra quest’ultimi il fatto che riportare la manifattura in patria dopo decenni di progressiva desertificazione è un percorso lungo e tutt’altro semplice.
I secondi, tuttavia, quei fatti che in molti si ostinano ad ignorare, ci raccontano quello che sta realmente accadendo, al netto dell’ossessiva narrazione anti-trumpiana. Se è vero che per tornare a produrre acciaio nella Rust Belt di J.D. Vance non basteranno i dazi, è altrettanto vero che sono bastati pochi mesi a far cambiare il vento. Forse l’industria siderurgica avrà bisogno di tempo e aiuti, però negli Usa ci sono anche colossi mondiali che nei loro piano industriali hanno previsto vagonate di miliardi di investimenti destinate a territori dove la manodopera e l’energia hanno costi enormemente più bassi degli Stati Uniti. E per spostare quei soldi serve solo rifare bene i conti e rinunciare a una quota dei fantasmagorici profitti ipotizzati.
Ad aprire le danze, quando i dazi non erano ancora stati squadernati e la guerra commerciale con la Cina era solo una prospettiva all’orizzonte, ci ha pensato il marchio a stelle e strisce più famoso nel mondo dopo la Coca-Cola. A gennaio Apple ha annunciato un investimento di oltre 500 miliardi nei prossimi quattro anni per riportare negli Usa la produzione da tempo delocalizzata in Messico e in Asia. Il gruppo guidato da Tim Cook, uno dei supermanager presenti all’insediamento di Trump, aprirà un nuovo stabilimento a Houston per server che supportino Apple Intelligence, raddoppierà il suo US Advanced Manufacturing Fund, creerà un’accademia nel Michigan e accrescerà i suoi investimenti in ricerca e sviluppo negli Usa per supportare campi all’avanguardia come l’ingegneria del silicio. Il tutto, si stima, porterà alla creazione di 20mila posti di lavoro. Ora, ovviamente non tutto quello che luccica è oro. Parte di questi investimenti era già stata annunciata in passato per accaparrarsi i generosi sussidi pubblici messi sul piatto da Joe Biden. Ma il cambio di passo è innegabile. Il gruppo, prima di sapere quale sarebbe stata l’intensità dello scontro tra Usa e Cina sui telefoni e sui semiconduttori, ha deciso di accelerare il rientro in patria, rilanciando l’entità degli investimenti e senza il bisogno di ricevere in cambio soldi dei contribuenti.
Un caso isolato, direte voi. In realtà c’è n’è pure un altro. E non è proprio insignificante, visto che il protagonista è il primo (davanti a Samsung e Intel) produttore mondiale di semiconduttori, con 76,6 miliardi di fatturato (+120% rispetto al 2023). «Per la prima volta i motori dell'infrastruttura di intelligenza artificiale mondiale vengono costruiti negli Stati Uniti», ha annunciato un paio di giorni fa Jensen Huang, fondatore e Ceo di Nvidia. Il colosso tech ha promesso 500 miliardi di investimenti nei prossimi quattro anno per produrre infrastrutture di intelligenza artificiale in America. Nel dettaglio, Nvidia ha commissionato oltre 90.000 metri quadrati di spazio produttivo per costruire e testare i suoi potenti chip Blackwell in Arizona e i supercomputer di IA in Texas. Il gruppo inoltre sta collaborando con Foxconn, il più grande produttore mondiale di elettronica su contratto per uno stabilimento di supercomputer a Houston e con la taiwanese Wistron per un impianto a Dallas. Per carità, lo scenario è in evoluzione. Ma Trump nel giro di pochi mesi è riuscito a portare a casa mille miliardi di investimenti per l’industria nazionale. Fossero tutti così i pazzi, forse l’Occidente se la passerebbe meglio.