È forte alla Casa Bianca l’irritazione per l’ennesimo brutale attacco russo contro i civili ucraini avvenuto ieri, nel pieno della Domenica delle Palme. Non si tratta solo di delusione, ma proprio di una ferita politica e di immagine, avvenuta a un fazzoletto di ore dal lungo incontro tra Vladimir Putin e il negoziatore trumpiano Steve Witkoff.
Se, dopo un meeting di quattro ore e mezzo, e dopo le immagini (rilanciate dalla stessa televisione russa) del caldo saluto tra il capo del Cremlino e l’emissario del Presidente Usa, il primo atto di Mosca è una feroce azione militare, tutto il mondo comprende come – oggettivamente – Putin stia trattando piuttosto male Trump e la sua iniziativa di pace.
Si spiegano così le parole di eccezionale durezza lasciate a verbale da Keith Kellogg, altro stretto collaboratore di Trump e inviato speciale presidenziale per l’Ucraina, secondo cui l’azione russa di ieri «oltrepassa ogni limite di decenza».
È la quarta volta in un mese che dalle parti della Casa Bianca si alzano i toni verso Mosca. Una prima volta, il 12 marzo, Trump aveva parlato di “sanzioni devastanti” se Mosca avesse detto no al dialogo con Washington e Kiev. Una seconda volta, Trump aveva mostrato di aver mangiato la foglia rispetto al comportamento di Putin, rispondendo così ai microfoni di Newsmax: «La Russia sta menando il can per l’aia (“dragging their feet”).
L’ho fatto anch’io (ndr: qui Trump allude alle sue vecchie tattiche negoziali come businessman): non voglio firmare un contratto, ma voglio per così dire restare nella trattativa, o forse non lo voglio...». Una terza volta, qualche giorno fa, Trump si era definito «angry and pissed off» (ndr: alla lettera vuol dire “arrabbiato e incazzato”). Fino alla quarta uscita, quella di ieri di Kellogg.
Insomma, Trump sta perdendo la pazienza. È nota la sua ottima disposizione complessiva verso Putin. Di più: è noto il suo desiderio di raggiungere non solo una buona intesa per chiudere la guerra in Ucraina, ma pure di inserire questo accordo in una cornice globale, offrendo a Putin un’agibilità e una legittimazione a trecentosessanta gradi.
IL METODO
Ma al tempo stesso il Presidente Usa non ha nessuna intenzione di farsi umiliare in mondovisione. Contro questa eventualità, giocano l’orgoglio personale di Trump e anche la sua consapevolezza, da vecchia volpe della comunicazione, che non può passare agli occhi del pianeta come uno che fa la voce grossa con Zelensky e poi china il capo davanti a Putin.
E questo ci porta ai due enigmi con cui faremo i conti nei prossimi mesi. Uno riguarda Trump e l’altro l’inquilino del Cremlino.
Per ciò che riguarda il Presidente Usa, tutti sanno quanto sia per lui centrale – in politica estera – il metodo del “deal”, dell’accordo, dell’intesa. Ecco: quando il “deal” trumpiano riesce, spesso si tratta di capolavori. Ma che succederebbe se prima o poi qualcuno (in questo caso, a Mosca) un “deal” non volesse farlo? Quale sarebbe a quel punto la carta di riserva di Trump? Sarebbe facile o sarebbe complicato, dopo essere entrati in una dimensione di negoziato e di compromesso, ritornare su una pura linea di difesa dei princìpi?
GLI ALLEATI
Simmetricamente, anche Putin deve sciogliere un altro enigma, evitando di muoversi verso Trump con una pericolosa mancanza di accortezza. Dal punto di vista di Mosca, Trump può rappresentare una benedizione per rientrare in partita. Ma ciò richiede che l’interlocutore americano sia rispettato da Mosca, e non venga platealmente preso in giro. A sinistra, prigionieri dei pregiudizi come sono, difficilmente ci si interrogherà su questi due dilemmi.
Anche perché da quelle parti non dispongono di una strategia alternativa: anzi, molto spesso sono proprio loro i più inclini al cedimento strategico nei confronti degli autocrati. E allora toccherà proprio a qualche intelligente governo di destra (e si torna a Roma, a maggior ragione alla vigilia dell’incontro di Giorgia Meloni con Trump) indossare i panni di alleato razionale, capace di innervare di idealità pro Occidente il pragmatismo “contrattuale” del tycoon.