«Guerra al dominio dell’imperialismo americano!!! Attaccare l’imperialismo delle multinazionali e la sua struttura di occupazione militare: la Nato!!!». Le Brigate Rosse, che il giorno prima avevano rapito il generale americano James Lee Dozier, scrissero queste parole nel documento diffuso il 18 dicembre del 1981. Cinque giorni dopo gli uomini della Cia gli dedicarono una loro analisi, che sarà resa pubblica nel 2005 da Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari (L’Italia vista dalla Cia, Laterza). «Il primo comunicato delle Br», avvertivano i servizi statunitensi, «lascia credere che stiano cercando di cavalcare il sentimento antimilitarista e antinucleare in Italia e in Europa occidentale». Avevano ragione, il disegno era quello. Lo aveva spiegato il brigatista Antonio Savasta ai compagni, per convincerli a sequestrare un militare americano: «Dal dopoguerra gli Stati Uniti hanno aperto unilateralmente uno scontro durissimo con il proletariato di tutto il mondo», era giunto il momento di «completare la seconda fase della Resistenza partigiana» (è il racconto riportato da Nicola Rao nel libro Colpo al cuore, Sperling & Kupfer).
Un merito, almeno uno, i partiti progressisti dovrebbero quindi riconoscerlo a Donald Trump: il suo arrivo alla Casa Bianca ha reso possibile l’abbandono di ogni inibizione. L’antico sentimento antiamericano, talvolta coltivato e talaltra tenuto a bada dai suoi dirigenti, può finalmente essere urlato, libero di sfogarsi come nemmeno ai tempi di Richard Nixon e Ronald Reagan. Quello che allora solo i brigatisti potevano dire, adesso lo dicono tutti: gli Stati Uniti sono il Male e debbono essere combattuti. Elly Schlein può dichiarare che «per noi Trump non sarà niente di simile ad un alleato», Angelo Bonelli può annunciare che gli Usa di Trump sono «un nemico del pianeta e delle generazioni future».
Era iniziata proprio come aveva detto Savasta: con la resistenza partigiana comunista e col mito della rivoluzione tradita. Aiuta a capirlo un episodio raccontato da Elena Aga-Rossi e Giovanni Orsina nel volume L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra (Rubbettino editore, a cura di Piero Craveri e Gaetano Quagliariello): «Quando, nell’autunno del 1943-44, i servizi alleati invitarono il Pci a lavorare con loro, il partito chiese a Mosca se i comunisti dovessero “collaborare con i quartieri generali anglo-americani e i servizi anglo-americani, permettendo alle autorità militari alleate di disporre dei loro uomini”.
Da Mosca venne una risposta molto significativa, con ogni probabilità scritta da Togliatti e Dimitrov: “I comunisti non possono esplicitamente rifiutarsi di collaborare con i comandi anglo-americani per nessuna azione oltre la prima linea. Tuttavia, debbono limitare la loro collaborazione al minimo, e soprattutto, devono adottare ogni possibile misura al fine di impedire agli agenti dello spionaggio anglo-americano di infiltrarsi nel partito e nelle sue sezioni clandestine”».
Gli Stati Uniti erano il nemico, solo che non lo si poteva dire in pubblico. La finzione cadde nel 1947, con la “dottrina” di Andrej Zdanov, l’ideologo di Stalin che teorizzò la divisione del mondo in due campi: quello imperialista guidato dagli Stati Uniti e quello democratico e antimperialista guidato dall’Urss. Prima di allora, raccontano ancora Aga-Rossi e Orsina, «la stampa comunista accusava di fascismo solo alcuni settori dell’establishment politico americano. Dopo l’iniSopra, un manifesto elettorale del Pci contro la base Nato nell’isola de La Maddalena, e la presenza delle forze militari Usa nel Mediterraneo.
Al centro, un manifesto del Pcidel 1958. In quell’anno gli Stati Uniti iniziarono il dispiegamento in Europa dei missili a testata nucleare. «Nel 1948 ci promisero lo sfilatino. Nel 1958 ci mandano i missili», si legge nei manifesti stampati a Botteghe Oscure. Il Pci all’epoca predicava la «neutralità atomica» (Immagini tratte dal Immagini tratte dal libro da “Il nostro PCI: 1921-1991 Un racconto per immagini” di Fabrizio Rondolino per Rizzoli) zio della Guerra Fredda, l’intera politica internazionale americana fu considerata una continuazione della strategia di Hitler».
Il Pci e gli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale, scrive Massimo Teodori nel libro curato da Craveri e Quagliariello, ebbero così «il compito di fare da battistrada nelle campagne sedicenti pacifiste antiamericane». L’equazione tra pacifismo e antiamericanismo, una costante della sinistra italiana ed europea, nacque in quei giorni, per ordine di Mosca, come racconta in quello stesso volume Victor Zaslavsky: «Nella politica estera dell’Urss la campagna di “lotta per la pace”, con le sue varie ramificazioni, e in primo luogo la creazione del movimento dei partigiani della pace, diventò il metodo di esportazione e di diffusione dell’antiamericanismo in Occidente». Le spese iniziali per l’organizzazione e la propaganda pacifista, «calcolate tra 75 e 100 mila dollari», erano a carico di Mosca.
«Pace», come ordinato da Zdanov e Stalin, fu quindi l’arma usata dal Pci contro la Dc e il suo finanziatore americano. «W la Pace» si leggeva sulla copertina di Pioniere, il settimanale per ragazzi del Pci diretto da Dina Rinaldi e Gianni Rodari. «Pace Libertà Lavoro» era lo slogan che accompagnava i congressi e gli anniversari del Pci, e la fotografia di una colomba bianca (poi rimpiazzata dal disegno di Picasso) appariva sulla cartolina del modulo di sottoscrizione per il fondo che finanziava i partigiani della pace. Nelle elezioni politiche del 1953 furono stampate finte banconote da un dollaro: a sinistra era raffigurata una bomba atomica, a destra un uomo col cappuccio del Ku Klux Klan e due neri impiccati, e sopra e sotto la scritta: «Con questa moneta non hanno comprato i coreani. Con questa moneta non compreranno il popolo italiano». Quando gli Stati Uniti iniziarono il dispiegamento in Europa dei missili a testata nucleare PGM-19 Jupiter, il Partito comunista era pronto: «Nel 1948 ci promisero lo sfilatino. Nel 1958 ci mandano i missili», si legge nei manifesti stampati a Botteghe Oscure.
Il Pci predicava la «neutralità atomica». «Più tardi», ricorda Teodori, «un altro antiamericanismo di sapore terzomondista si leva nel 1968 sulla scia dei nuovi eroi Mao, Castro, Che Guevara e Ho Chi Min. Negli anni Settanta ancora un nuovo antiamericanismo risorge sull’onda delle varie teorie dei complotti destabilizzanti denominate “Doppio Stato” o “Poteri occulti” poggianti sul trio mafia-massoneria-servizi deviati». Quindi, agli inizi del nuovo millennio, saranno «il movimento no-global e quello neopacifista a riesumare la bandiera antiamericana».
Certo, c’era stata l’intervista di Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa, nel giugno del 1976. Quella in cui il segretario del Pci diceva di sentirsi «più sicuro stando di qua», nel Patto atlantico. Il messaggio, però, non era passato ai piani inferiori. Come se le «masse» avessero colto l’ambiguità e capito che quello era un tentativo per rassicurare i lettori moderati del Corriere della Sera, mentre il Partito comunista italiano continuava a ricevere soldi da Mosca. Un lustro dopo, i movimenti pacifisti avrebbero organizzato manifestazioni imponenti contro l’installazione degli “euromissili” Cruise nella base Nato di Comiso, confortati dalla presenza di parlamentari e amministratori del Pci.
Il vero cambiamento nell’immaginario della sinistra, o almeno di buona parte di essa, arriva con le responsabilità di governo. Nel 1991 muore il Pci e nasce il Pds, nel 1996 l’Ulivo di Romano Prodi vince le elezioni e va al governo. Con Bill Clinton, alla Casa Bianca dal 1993 al 2001, e Tony Blair, a Downing Street dal 1997 al 2007, nasce il sogno dell’Ulivo Mondiale, a guida americana. Nel 2007 il Pds, già divenuto Ds, si fonde con la Margherita e dà vita al Partito democratico, filo-americano anche nel nome. Gli Stati Uniti sono JFK, la Beat Generation e Woodstock, l’Unità di Walter Veltroni distribuisce le videocassette dei film di Hollywood: Fronte del porto, Easy Rider, Il Laureato, Soldato Blu, Platoon. La colonna sonora la suona Bruce Springsteen, che prende il posto di Bob Dylan: pace sì, ma Born in the Usa. Perfetto per chi è cresciuto e ha capito che senza un rapporto stretto con Washington a Roma non si governa. La prova d’amore è il governo di Massimo D’Alema, che fa partecipare l’Italia al bombardamento dell’ex Jugoslavia sotto la bandiera della Nato e senza mandato Onu.
Dura, tra alti bassi, finché al di là dell’oceano gli operai impoveriti non abbandonano il Partito democratico e alla Casa Bianca arriva uno che vede la Nato come un servizio che gli Stati Uniti prestano agli europei, i quali debbono pagare per averlo. Agli orfani italiani non resta che aprire i cassetti e spolverare gli slogan delle vecchie mobilitazioni: Pace, America fascista e capitalismo imperialista. Perfetti per una segretaria del Pd che pare uscita da Ecce Bombo. Ma se un tempo a essere vuote erano solo le urne, oggi lo sono anche le piazze, e la mobilitazione si riduce a uno stato d’animo o poco più.