Cina, il compagno Xi Jinping ha più potere di Mao

Pechino insegna: il liberalismo, per affermarsi, ha bisogno di una comunità di valori condivisi in cui radicarsi: la democrazia liberale non nasce dal nulla, né può essere esportata
di Corrado Oconelunedì 14 aprile 2025
Cina, il compagno Xi Jinping ha più potere di Mao
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Della Cina attuale, competitor globale degli Stati Uniti, si può ben dire che non l’abbiamo vista arrivare. Ancora negli anni Settanta del secolo scorso, il Paese asiatico era considerato uno dei più poveri e isolati al mondo. Da allora, le cose sono radicalmente e rapidamente mutate: un vero e proprio “miracolo economico”. Come era stato, in tutt’altro ordine di grandezza, per quello italiano subito dopo la guerra, il boom cinese è avvenuto sotto l’impulso e per volontà dell’amministrazione americana. Preparata da un abile lavoro diplomatico di Kissinger, la visita a Pechino di Nixon nel 1972 fu la prima tappa di un disgelo politico suffragato da importanti decisioni e aiuti economici. L’ingresso della Cina nel WTO nel 2001 non fu che l’ultimo atto di un processo che aveva ormai inserito il paese asiatico nel sistema economico e commerciale globale.

Così come l’America di Truman aveva trovato in De Gasperi una formidabile, così l’America degli anni Settanta ha avuto in Deng Xiaoping un interlocutore privilegiato. È lui il vero padre della Cina attuale con il suo modello di capitalismo promosso da uno Stato centralizzato e autoritario. Deng si pose agli antipodi dell’anticapitalismo di Mao, la cui “rivoluzione culturale” aveva promesso un “balzo in avanti” ma si era risolta in un bagno di sangue e nella conferma dell’endemica povertà della popolazione cinese. A favorire la politica di apertura alla Cina ci furono senza dubbio, da parte americana, considerazioni geo-politiche, ma anche una certa ideologia liberale giocò il suo ruolo. Se è evidente che la strategia di Nixon era quella di giocare la Cina in funzione antisovietica, forte fu anche l’idea che, favorendo il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e la nascita di una solida classe media, come conseguenza anche le strutture politiche si sarebbero modernizzate e la democrazia liberale avrebbe gradualmente sostituito l’autoritarismo.

Questa sorta di “determinismo liberale” avrebbe trovato una conferma con la fine dell’Unione Sovietica, quando il comunismo fu sconfitto, come si dice, più dai supermercati vuoti che non dalle armi. E sarebbe diventata poi un vero e proprio dogma delle élite nell’età della globalizzazione che si aprì subito dopo. Oggi constatiamo che, seppur la Cina sia cresciuta in modo straordinario, il Partito Comunista non ha certo allentato la sua presa sulla società. Xi Jinping, proclamatosi presidente a vita, ha un potere ancora maggiore di quello che ebbe a suo tempo Mao. Non le libertà occidentali, ma un rigido sistema di controllo e sorveglianza è il tratto caratterizzante della sua politica. Perché la modernizzazione economica non ha realizzato in Cina il liberalismo? E quali insegnamenti dobbiamo trarne? Provo a rispondere alla prima domanda, in cui molto c’entra una certa hybris occidentale. Su un punto i cinesi hanno infatti ragione: la loro è un’antica civiltà che in certi momenti ha anche sopravanzato la nostra in determinati settori.

Essa però, come ci insegna Francois Jullien, si regge su una mentalità completamente diversa da quella occidentale. C’è una linea di continuità che unisce il confucianesimo allo statico “dispotismo orientale” di cui parlavano Hegel e Marx e al comunismo autoritario dell’oggi. La si trova nell’incapacità di riconoscere alcuni valori per noi indispensabili, dalla centralità della persona (a cui viene anteposta la comunità) al pluralismo conflittuale delle idee (a cui viene preferita l’armonia). L’insegnamento da trarne è che il liberalismo, per affermarsi, ha bisogno di un terreno adatto, di una comunità di valori condivisi in cui radicarsi: la democrazia liberale non nasce dal nulla, né può essere esportata. Quanto al rapporto fra liberalismo economico e liberalismo politico esso non può essere concepito come quello di mezzo a fine, ma come un rapporto dialettico in cui la cultura e l’economia hanno eguale peso condizionandosi a vicenda e interagendo in modo dialettico.