La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti si stringe come una tenaglia sulla manifattura italiana ed europea. In primis perché, a dispetto della moratoria di tre mesi concessa da Donald Trump, nei confronti dei Paesi Ue rimangono in vigore i dazi su acciaio e alluminio e derivati (al 25%), quelli al 25% sulle auto, oltre alla tariffa minima del 10% su tutti i beni. E poi perché c’è il rischio che le merci cinesi dirette negli Usa, appesantite da un’aliquota monstre del 145%, vengano dirottate in Europa. Un timore che serpeggia, sempre più insistente, tra le imprese italiane.
«Il rischio che arriva da un riorientamento di prodotti cinesi verso l’Europa causato dai dazi Usa su Pechino è altissimo» ha dichiarato al Corriere il presidente di Federchimica Francesco Buzzella. «Anche perché la quota di import di chimica dalla Cina è già aumentata dal 5 al 16% nel periodo 2021-2024». E gli ultimi dati confermano il trend: a gennaio le importazioni sono raddoppiate. La preoccupazione contagia anche la siderurgia e soprattutto l’automotive, settore già in affanno per la transizione ecologica e per una crisi che appare ormai strutturale.
Ma nello sconquasso del commercio globale c’è anche chi ci vede delle opportunità. «È possibile che i dazi americani contribuiscano ad un aumento dell’export cinese verso l’Europa, come è possibile che i controdazi cinesi aprano spazi di mercato in Cina per i prodotti italiani ed europei» spiega a Libero l’economista dell’Istituto Bruno Leoni, Nicola Rossi. Che saluta positivamente le interlocuzioni in corso tra Bruxelles e Pechino. Colloqui che dovrebbero concretizzarsi in un summit in Cina nella seconda metà di luglio. «Mi sembra del tutto naturale che, nel momento in cui gli Usa prendono una posizione così intransigente, l’Italia e l’Unione europea cerchino di posizionarsi su tutti i mercati globali» prosegue Rossi. «È ragionevole puntare su un maggior interscambio con l’India, la Cina e l’America latina. Certo, questo va fatto con prudenza, ma anche con determinazione» aggiunge.
Anche perché questa potrebbe essere l’occasione per riequilibrare i rapporti di scambio tra i due blocchi, ora pesantemente sbilanciati a favore di Pechino. Come certifica Eurostat, l’anno scorso i Paesi europei hanno esportato in Cina beni per 213 miliardi di euro e ne hanno importati per 518 miliardi, con un disavanzo che si è attestato a 304 miliardi. Più equilibrata la bilancia dei servizi, che vede un surplus dell’Ue di 14 miliardi, a fronte di 57 miliardi di export e 43 di import. Per Carlo Alberto Carnevale Maffè, però, non è il caso di paventare il rischio di un’inondazione di beni cinesi dovuta all’ostruzione delle rotte commerciali verso gli Usa. «Parlare di invasione è scorretto» spiega a Libero l’economista e docente di strategia aziendale all’università Bocconi. «Più che un rischio vedo una probabilità che va interpretata come un’occasione per non subire la Cina» prosegue.
«È vero che quando vengono introdotti dei dazi la produzione del Paese colpito cerca sbocchi alternativi, ma questo vale anche per noi europei. E difatti è quello che sta tentando di fare la Commissione» puntualizza Maffè. «L’Europa può cogliere l’occasione per siglare accordi di scambio su basi trasparenti ed eque non solo con la Cina, ma anche con l’India e con il Sudamerica». Maffè invita poi a guardare il quadro nel suo complesso, evitando di concentrarsi solo sullo scambio dei beni. I temi sul tavolo, evidenzia l’economista, sono due: la svalutazione dello yuan, pilotata dalla banca centrale cinese per stimolare l’export, e il settore dei servizi ad alta tecnologica, che pone questioni rilevanti sulla sicurezza nazionale. «La bilancia commerciale non si equilibra solo guardando ai singoli Paesi o ai singoli prodotti. Dibattere solo di beni è un’ingenuità. Bisogna prestare attenzione anche all’aspetto monetario» sottolinea.
Nell’ultimo mese la valuta cinese si è deprezzata di circa il 4% sull’euro: se l’11 marzo ci volevano 7,78 renminbi per comprare un euro, ora ce ne vogliono 8,1. «In prospettiva, c’è la possibilità che l’euro si rafforzi e che invece che lo yuan si indebolisca, deprezzamento che è ovviamente uno dei problemi da affrontare in un eventuale negoziato». Ma l’attenzione va posta anche e soprattutto sui servizi. «La Cina non è solo un gigante manifatturiero, ma sta anche crescendo molto sul settore dei servizi. È un grande produttore di software ed elettronica. Ed è questo l’aspetto che mi preoccupa di più: perché i servizi si portano dietro dati e informazioni e pongono dunque un tema di sicurezza nazionale».
Quanto poi all’ipotesi di un azzeramento dei dazi europei sulle auto elettriche cinesi, Maffè non la ritiene affatto autolesionista. «La Cina ha costruito, sia pur con ingenti sussidi statali, una filiera molto competitiva. Mentre l’Europa avrebbe dovuto eliminare i vincoli del Green deal e dare incentivi alle imprese perla ricerca». Per l’economista, il problema piuttosto è un altro: «L’assurdità è che stiamo sussidiando con incentivi fiscali l’acquisto di auto elettriche cinesi alle quali poi applichiamo dei dazi. Bruxelles deve smettere di decidere quali macchine devono comprare gli europei, e limitarsi a stabilire gli obiettivi di decarbonizzazione, lasciando alle imprese la scelta della tecnologia più adegauta».