Può piacere o no, ma Donald Trump è riuscito nell’inimmaginabile: far celebrare al più grande regime comunista ancora in attività il più grande anticomunista della storia. Detto questo, sarebbe sbagliato liquidare la vicenda del video di Ronald Reagan contro i dazi postato dall’ambasciata cinese negli Usa come un semplice sabotaggio. Per carità, l’ottima lezione sui benefici della libera circolazione delle merci dell’ex presidente americano ha campeggiato trionfante sui siti dei giornali progressisti ed è rimbalzata senza sosta sui profili social dell’esercito radical chic non certo per una folgorazione collettiva sulla via di Damasco. Il tentativo di sgambettare Trump sul suo stesso terreno, accusandolo di aver tradito una figura mitologica del conservatorismo americano e mondiale, è evidente. Ma nella trappola è finita anche una buona dose di liberali e liberisti genuini. E forse, allora, è bene fare un po’ di chiarezza.
Mettiamo per un attimo da parte l’ossessione antitrumpiana e proviamo a ragionare sul video di Reagan così come su quello dell’altro nume tutelare del pensiero liberale Milton Friedman, chiamato in causa da Elon Musk per la sua famosa lezione della matita “gobalista”. Il primo è del 1987, il secondo del 1980. I benefici del libero mercato hanno una scadenza? Certo che no. Solo che il mondo va avanti per suo conto, fregandosene della mano invisibile di Adam Smith. E quello in cui si muove Donald Trump è un po’ diverso da quello con cui dovevano fare i conti l’ex presidente Usa e il Nobel dell’economia Friedman che lo consigliava.
Per avere un’idea basta prendere un paio di grafici. Uno è quello sulla bilancia commerciale degli Stati Uniti, di cui oggi si parla tanto. La curva dimostra chiaramente che dai primi del 900 fino alla metà degli anni 70 l’America è sempre stata in surplus. Il deficit inizia a crescere con moderazione negli anni 80 ed esplode veramente solo dopo il 1990. L’altro grafico, ancora più interessante, riguarda gli investimenti all’estero, in altre parole la quantità di attività economiche e di produzione trasferita dalle imprese Usa fuori dal Paese. Qui la distinzione è netta, la corsa oltre confine inizia esattamente all’inizio degli anni 90 per raggiungere cifre stratosferiche a partire dal 2000.
Insomma, il liberismo di Reagan aveva poche controindicazioni: la globalizzazione non era decollata, le delocalizzazioni erano trascurabili, la Cina non aveva iniziato la sua conquista del mondo e l’Europa non aveva ancora alzato i suoi scudi burocratici. Malgrado questo, l’ex presidente un paio di mosse alla Trump le fece. Nell’82, ad esempio, mise dazi al 14% sul legname proveniente dal Canada, che stava distruggendo la produzione interna. Ma è qualche anno dopo, proprio nel 1987, che anticipò lo stile del tycoon. Il Giappone stava iniziando ad invadere gli Usa con le sue auto, mettendo a rischio (come poi accadrà) la produzione nazionale e iniziando a far incrinare la bilancia commerciale. La risposta di Reagan? Dazi generalizzati del 100% su tutte le merci giapponesi. Nel frattempo, nel 1985, sempre per tentare di frenare il deficit commerciale che stava cominciando a gonfiarsi, grazie all’accordo del Plaza, sottoscritto dall’allora G5, fece svalutare il dollaro del 50% per favorire le esportazioni. Liberista sì, ma non stupido.