Mettiamola così: la sinistra non ha alcun interesse (elettorale) a placare la tempesta sui mercati. È il vecchio adagio del “tanto peggio, tanto meglio”. Troppa succosa l’occasione di lucrare sulla “guerra dei dazi”. In barba a coloro- e sono tanti, tra i big dell’imprenditoria e della finanza, per non parlare di Bankitalia, secondo cui le «misure ritorsive» non farebbero altro che provocare ulteriori «effetti negativi» - che predicano “calma e gesso”. Altro che negoziato con Donald Trump. Altro che abbassamento della temperatura, l’opposizione ha voglia di scontro.
Basta dare un’occhiata alle dichiarazioni dei suoi leader nelle ultime 48 ore, quelle in cui Palazzo Chigi ha messo in campo sia il confronto con le categorie più penalizzate dalle tariffe Usa, sia l’azione diplomatica per rendere meno dura e ultimativa la rappresaglia Ue in ottica dialogo con la Casa Bianca, per rendersene conto. Ecco il capogruppo del Pd al Senato, Francesco Boccia, affidare a Repubblica la sua attribuzione di responsabilità su quanto sta accadendo: è di Giorgia Meloni, ovvio. «Sta facendo don Abbondio». La presidente del Consiglio è colpevole di «silenzi sempre più imbarazzati e imbarazzanti»; «è muta come un pesce». E ancora: «Il nostro sistema produttivo vorrebbe sapere come il governo Meloni pensa di tutelarlo».
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Dichiarazioni, come si suol dire, invecchiate male visto il piano per complessivi 25 miliardi di euro messo in campo a favore delle imprese da parte dell’esecutivo. Misura annunciata dalla premier Meloni alle associazioni di categoria ieri pomeriggio, nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi. Il bello è che per Boccia la presidente del Consiglio non dovrebbe neanche andare a parlare con Trump: «Rischia di subire un’altra umiliazione». Fortuna che la presidente del Consiglio ci andrà. Il 17 aprile, altra notizia di ieri.
Poi c’è Matteo Renzi, specialista in richieste di dimissioni dei ministri. Dopo Francesco Lollobrigida, titolare delle Politiche agricole, ecco Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy. «In mondo normale», sostiene l’ex premier intervistato dalla Stampa, il capo del governo lo «manderebbe a casa». E invece «la risposta della premier» di fronte alla tempesta non è stata «all’altezza perché lei non è all’altezza del momento». Lui, il capo di Italia viva, evidentemente invidioso della partecipazione di Meloni al congresso di Azione di Carlo Calenda - il suo ex sodale nel fallito Terzo polo- aggiunge che mai e poi mai avrebbe permesso a Giorgia di «difendere Trump dal palco di un mio congresso».
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Tra i gruppi parlamentari dell’opposizione è corsa alla battuta. Questo è Davide Faraone, che di Renzi è il vice: «Ormai è diventato il tormentone degli scienziati al governo: “Niente panico”. Sembra un brano di Ghali per l’estate». Ubaldo Pagano, capogruppo del Pd in commissione Bilancio di Montecitorio, accusa Meloni - che in quel momento si accingeva a incontrare le categorie produttive - di giocare a «nascondino. Si assuma le sue responsabilità e venga urgentemente in Parlamento». E che dire di Stefano Patuanelli, il capogruppo a Palazzo Madama del M5S, che in un’intervista ad Affari Italiani si diceva certo dell’immobilismo del governo? «La maggioranza farà quello che le riesce meglio: nulla».
Non bastassero i “deliri” italiani, ci si mette anche Christine Lagarde. Invece di gettare acqua sul fuoco, qualche giorno fa la presidente della Banca centrale europea ha invitato a prepararsi a un cambio dei circuiti di pagamento su cui passano le carte di credito. «Molti dei nostri pagamenti digitali dipendono sempre da infrastrutture non europee», ha detto Lagarde citando Visa, Mastercard, PayPal e Alipay. «Da dove provengono tutti questi dati? Dagli Stati Uniti o dalla Cina. L’intero meccanismo infrastrutturale che consente i pagamenti, il credito e il debito, non è una soluzione europea». Ergo, è ora di cambiare. Alla faccia del negoziato.