Barack Obama fu il primo a dire "europei parassiti"

Trump alla gogna dopo le sue parole contro l'Ue? Peccato che Barack pensasse la stessa cosa
di Giovanni Sallustimercoledì 26 marzo 2025
Barack Obama fu il primo a dire "europei parassiti"
3' di lettura

Ci piace vincere facile: oggi giornaloni, inviati dal loro divano e anime belle assortite monteranno l’ennesima indignazione collettiva perché Donald Trump ha definito «parassiti» gli europei. Pressoché nessuno entrerà nel merito della questione. Anzitutto linguistico: il presidente, dichiarandosi d’accordo con i virgolettati del suo vice nell’ormai famigerata chat, ha usato il termine «freeloading», che indica sostanzialmente colui che «vive a sbafo». Sintesi cruda ma difficilmente smentibile, di fronte al 70 per cento delle spese della Nato sostenute Oltreoceano. La parola peraltro è molto simile al “free riders”, cioè colui che gode di un bene senza pagarlo, appiccicato per la prima volta agli europei da, udite udite... Barack Obama. Essì, perché dietro il goffo affaire c’è uno scompenso strutturale del rapporto transatlantico, un’oggettività economica, non una valutazione morale, per cui la traduzione corretta dell’epiteto sarebbe piuttosto “scrocconi”, come risponde anche Hegseth a Vance.

Ma vediamole bene, le parole di JD Vance che hanno acceso la miccia. «Detesto l’idea di salvare gli europei ancora una volta»: ecco la pietra dello scandalo, la sentenza durissima del vicepresidente atipico, del “bifolco” (la sua Elegia Americana è l’elegia dell’“hillbilly”, dell’umanità americana profonda, tradita dalla globalizzazione costiera). Una sentenza durissima come la verità, e come la storia del Novecento. «Il secolo più terribile della storia occidentale», scrisse Isaiah Berlin. Ed esclusivamente per colpa della metà antica, erudita, aristocratica d’Occidente: l’Europa. È stato il Vecchio Continente ad inventarsi quell’insuperato marchingegno di morte e distruzione impensabile nelle praterie del Nuovo Mondo noto come “totalitarismo”, nella sua doppia veste nazifascista e comunista.

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Sono stati i ragazzi venuti dall’altra parte dell’Oceano, sono state anzitutto moltitudini di bifolchi d’America, a farla finita con la bestia hitleriana sbarcando in Normandia, venendo macellati a Omaha Beach, sfondando nella Valle della Loira, liberando mezza Europa. All’altra metà andò peggio, le toccò il giogo sovietico. Da cui per mezzo secolo ci ha protetto esclusivamente quello scudo americano contro cui la meglio (?) gioventù delle capitali europee scendeva in piazza. Quei cinquant’anni di pace e di benessere che secondo i comici organici al luogocomunismo come Benigni sono dovuti alle istituzioni europee, sono tutti firmati Zio Sam, è stata la cavalcata della libertà conclusa col trionfo reaganiano nella Guerra Fredda.

Ebbene, ci ha detto Vance già nella sua sfuriata libertaria di Monaco: «Quando guardo l’Europa oggi, non è così chiaro cosa sia successo ad alcuni dei vincitori della Guerra Fredda». Calpestiamo il Free Speech, arrestiamo il vincitore delle elezioni se non è di nostro gradimento (caso rumeno), infieriamo sulla nostra economia con ossessioni dirigiste che paiono la riproposizione Woke dei piani quinquennali sovietici (vedi Green Deal), insabbiamo perfino scandali di pedofilia diffusa se coinvolgono comunità straniere per non incorrere nello psicoreato di “islamofobia” (è avvenuto nel Regno Unito, progenitore della “terra dei liberi”).

Stiamo tradendo, noi, l’Occidente, con la postilla beffarda che a un centimetro dal baratro che ci siamo scavati da soli, ci voltiamo e lamentiamo l’assenza di Mamma America. È una diagnosi spietata ma fattuale, coinvolge pressoché l’intera classe dirigente europea (Angela Merkel in testa) degli ultimi lustri. È quella leadership che ha coltivato un ipocrita appeasement mercantilista con la Russia e perfino con la Cina, convinta che sarebbe stata difesa a oltranza dal contribuente americano. Perdipiù, sputandogli sovente in faccia. I bifolchi dicono che così è troppo, provate a dar loro torto.

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