All’indomani della caduta del Muro di Berlino e con la unificazione della Germania, Francia e Gran Bretagna diedero sostanza politica a una preoccupazione comune: come arginare i tedeschi nuovamente uniti e le cui ambizioni imperiali furono la sciagura del Novecento, il cosiddetto secolo breve. Così mentre durante la Guerra Fredda Giulio Andreotti in una festa dell’Unità (ma eravamo ancora nella Guerra Fredda) disse di amar così tanto la Germania da preferirne sempre due, dando voce al pensiero di molti; crollata l’Urss si pensò di accelerare il percorso europeista al fine di neutralizzare il pericolo di un pangermanesimo di ritorno: «Facciamo l’euro così controlliamo la Germania». La signora Thatcher accettò la sfida “unionista” senza però aderire alla moneta comune, che invece fu accelerata soprattutto dalla Francia. Il resto della storia è noto, con tutti i chiari di luna, gli alti e i bassi.
A distanza di anni e nel momento più difficile, l’Unione europea è ben lontana dall’essere un soggetto politico con un ruolo da protagonista mentre la temuta Germania - la Nazione che si doveva tenere a bada - cambia la Costituzione e con un colpo solo cancella due divieti: quello di potersi armare e quello di sforare il debito pubblico. È incredibile che tutto questo sia accaduto con il voto di chi le elezioni le avrebbe vinte (la Cdu di Merz) con coloro che invece le elezioni le hanno perse, ossia l’Spd e i Verdi! Con il sì della Grande Coalizione, la Germania toglie il freno al debito e torna a riempire le armerie all’insegna del “Ce lo chiede l’Europa”. La quale Europa, edificata all’insegna del superamento degli Stati nazionali («Dove volete andare con i singoli Stati...»), chiede proprio ai singoli Stati di armarsi a prescindere dal debito pubblico con una specie di promessa “...tanto poi ci sistemiamo”. Il governo italiano, che le minacce dei mercati a colpi di spread le conosce bene, invita alla prudenza per evitare che le “scalmane” di Macron e di Merz prendano il sopravvento e contagino il freddino Starmer, che è il premier di una nazione fuori dall’Unione europea ma che d’un tratto si interessa dell’esercito europeo.
Giorgia Meloni picchia durissimo con un video: "Un messaggio per Elly Schlein"
Una giornata infuocata alla Camera, con il dibattito in vista del Consiglio europeo, al centro il riarmo e la questione ...
Bene sta facendo dunque Giorgia Meloni a scrostare la retorica spinelliana di Ventotene («Quell’Europa non è la mia»), a ricordare il peso reale della Ue rispetto all’America, a guardare con attenzione all’apertura del dialogo tra Trump e Putin, e infine a non disallinearsi rispetto al ruolo della Nato. Coloro che - vedi Macron, Merz e Starmer spingono per aumentare le spese militari o lo fanno per ingrassare l’industria bellica oppure lo fanno in funzione di una visione politica da sostenere anche militarmente, una visione che però rispetto a Bruxelles si fa davvero fatica a scorgere o a immaginare. L’Europa in tre anni di guerra non ha dato impulsi di vita politica; arrivare proprio nelle stesse ore in cui finalmente si riaprono i canali di interlocuzione tra la Casa Bianca e il Cremlino - a un linguaggio bellicoso (che mai era stato proprio della Ue) appare una evidente forzatura. La via trovata dalla premier, pertanto, è la più saggia, soprattutto dopo che la Germania ha tolto il freno alla spesa pubblica e ha imboccato la strada del riarmo. Se in Ucraina finalmente le armi taceranno è perché Putin ha deciso di sedersi al tavolo della mediazione voluto da Trump: dopo tanta retorica le potenze contano anche guardando al peso delle tracce che lasciano sul campo.