
Astronauti bloccati 9 mesi nello spazio: le conseguenze devastanti per il loro corpo

La vera missione - e forse la sfida più impegnativa- di Sunita “Suni” Williams e Barry “Butch” Wilmore, 59 e 62 anni, i due astronauti che sono stati in orbita per oltre nove mesi, inizia adesso. Ed è quella di tornare terrestri, riabituare il fisico e la mente alla gravità e alla vita di tutti i giorni. Già, perché viaggiare nello spazio e vivere galleggiando è affascinante - il sogno di tutti noi fin da bambini -, ma oltre ad adrenalina, emozione e fascinazione comporta anche danni a volte irreversibili. Soprattutto se si sta lontano dalla Terra a lungo, come è capitato ai due cosmonauti che erano saliti sulla Stazione Internazionale lo scorso 5 giugno con il volo inaugurale di Starliner, il veicolo costruito da Boeing proprio per il trasporto di personale in orbita. Williams e Milmore dovevano tornare dopo una settimana, ma per una serie di problemi tecnici (dubbi sui parametri di sicurezza, perdite di elio, rumori strani: la capsula è tornata senza di loro tre mesi dopo, atterrando nel deserto del New Mexico) sono rimasti lassù 286 giorni- orbitando attorno alla Terra 4.576 volte e percorrendo 195 milioni di chilometri - in attesa di un “passaggio”. Quello organizzato lo scorso settembre dalla NASA e SpaceX (l’azienda aerospaziale statunitense fondata nel 2002 da Elon Musk) con la missione Crew-9: sulla navicella Dragon, con a bordo gli astronauti Nick Hague e Aleksandr Gorbunov, al decollo erano stati lasciati dei posti vuoti per ospitare, ora al ritorno, i “naufraghi” del cielo. E così è stato.
I due cosmonauti, che in questi mesi hanno contribuito alle attività di routine e gestione della ISS, martedì sera (orario italiano) sono ammarati al largo delle coste della Florida dopo 17 ore di volo. Ma in quali condizioni sono rientrati , calcolando che il tempo medio di permanenza nello spazio dei loro colleghi è di sei mesi? Vedere Williams e Milmore in sedia a rotelle, ovviamente, ha fatto impressione, ma è normale al termine dei viaggi nello spazio: dopo i primi controlli medici sono stati trasportati in elicottero a riva e da lì, in aereo, a Houston dove, come da protocollo, rimarranno al Johnson Space Center della NASA per diversi giorni prima che di poter tornare a casa. «Ci sono stati molti membri dell’equipaggio che sono stati in orbita più a lungo e quindi non vediamo alcuna necessità di precauzioni speciali - ha spiegato Dina Contella, vicedirettrice del programma della Stazione Spaziale Internazionale della NASA - Come per tutti gli astronauti che tornano c’è un periodo di acclimatazione che varierà a seconda del membro dell’equipaggio».
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Gli astronauti bloccati da nove mesi sulla Stazione Spaziale tornano sulla terra
Sarà, ma di certo il corpo umano nello spazio accusa una serie di cambiamenti che non sempre spariscono col tempo. Ad essere maggiormente debilitati per la mancanza di gravità, ovviamente, sono soprattutto i muscoli, che perdono massa malgrado l’esercizio (nello spazio i cosmonauti si allenano per due ore e mezzo al giorno) e gli integratori: dorsali, collo, polpacci e quadricipiti tendono ad atrofizzarsi e dopo sole due settimane la massa muscolare può diminuire del 20% e arrivare al 30% in sei mesi. Poi ci sono le ossa. Nello spazio perdono forza e si demineralizzano (ma la colonna vertebrale si stira e si allunga, facendo diventare più alti), aumentando notevolmente il rischio di fratture, e per tornare alla normalità, una volta sulla Terra, possono passare anche quattro anni.
Non solo. Tra gli altri guai provocati dalla troppa permanenza in orbita ci possono essere cambiamenti nell’area del cervello preposta al movimento (causata dal muoversi senza gravità), danni al Dna (causati dall’insieme di radiazioni) che velocizzano l’invecchiamento e il fenomeno “baby feet”, i piedi da bambino. A spiegarlo è stato l’ex astronauta della NASA Leroy Russel Chiao, classe 1960 («Riadattarsi alla gravità è stato un po’ come affrontare una brutta influenza per un paio di settimane»), il quale ha raccontato che dopo sei mesi di permanenza nello spazio il piede perde la parte spessa della pelle, quella callosa, per la mancanza di pressione e attrito. Il risultato è che la pianta diventa morbida, sottile e liscia («quando torni hai un po’ i piedi di un bambino») ed è doloroso camminare finché non si riformano i calli (ma ci vogliono settimane o mesi).
Muscoli, ossa, piedi, ma pure occhi. Molti cosmonauti accusano un calo della vista perché nello spazio non c’è l’atmosfera terrestre che protegge dai raggi cosmici e dalle particelle solari e perché la gravità, sulla Terra, spinge il nostro sangue verso il basso, mentre il cuore lo pompa verso l’alto: in orbita, invece, tale processo si modifica e il sangue può accumularsi nella testa più del normale fino a ristagnare intorno al nervo ottico e provocare un edema. Dopo un anno solitamente le alterazioni della vista tornano nella normalità, ma ci sono casi in cui il problema diventa permanente. Certo, poi c’è da capire cosa succederà con il passare degli anni e molti studi sui “reduci” dello spazio fanno previsioni catastrofiche: ipotizzano, cioè, mutazioni nel sangue che possono portare al cancro e a malattie cardiovascolari, così come allo sviluppo di danni severi ai reni (secondo i calcoli degli esperti gli astronauti in viaggio verso Marte potranno aver bisogno della dialisi). La ricerca più intrigante, però, è quella che ha analizzato la differenza di adattabilità in orbita tra femmine e maschi. Ebbene, i risultati dicono che le donne sono più portate ad andare nello spazio perché il loro corpo resiste con più forza ai cambiamenti dettati dall’ambiente e poi si riprende più in fretta al rientro sulla Terra. Il motivo?
Secondo Christopher Mason, professore di Fisiologia e Biologia del Weill Cornell Medicine di New York e responsabile della ricerca, il fattore chiave potrebbe essere la loro capacità di affrontare la gravidanza e quindi di «tollerare grandi cambiamenti nella fisiologia e nella dinamica dei fluidi». Cosa che accade sia nella maternità che lassù, tra le stelle.
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