
Donald Trump, la rivoluzione che spiazza l'Europa: ecco cosa può cambiare

Da anni, tranne rare eccezioni (come questa...) sulla scena pubblica italiana il punto di vista conservatore non gode certo dello spazio riservato agli innovatori». Così Ernesto Galli della Loggia, mercoledì, riconosceva, sul Corriere della sera, l’amara verità sul “pensiero unico” che domina anche al Corriere della sera. In qualità di mosca bianca, dunque, lo storico ha spiegato cose che sono ben note ai lettori di Libero, ma non a quelli del Corriere.
«Galli ritiene che la vera “frattura” fra gli Stati Uniti attuali e la Ue, con le sue varie cancellerie (eccetto l’Italia), sia “di natura culturale”. Trump ha vinto infatti con un programma che, per gli elettori, dice Galli, «non consisteva altro che in un punto: contrastare l’orientamento progressista che negli ultimi due/tre decenni ha radicalmente mutato il volto ideologico-culturale della società americana e insieme delle nostre». L’editorialista ha spiegato che le «élite europee» hanno abbracciato questo pensiero unico «politicamente corretto» con «un atteggiamento di supponente superiorità» e con «l’abitudine di rifiutare ogni vero dibattito, negando la dignità di interlocutore» a chi la pensa diversamente. Intolleranza che si è facilmente innestata sulla storia illiberale della sinistra.
Galli della Loggia ha aggiunto che per le «classi popolari questa egemonia del nuovismo ha significato uno strappo doloroso con la propria identità, per mille ragioni ancora molto radicata nel passato», cosicché non hanno più potuto «fare sentire le proprie ragioni». E «drammaticamente decisivo in tale senso si è rivelato l’abbandono che da tempo la sinistra, Pd in testa, ha fatto della cultura popolare».
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A questa analisi (condivisibile) si deve però aggiungere una contestualizzazione storica. Bisogna chiedersi quando, come e perché fu presa la strada sbagliata. Risposta: negli anni Novanta per decisione della leadership Dem dell’unica potenza rimasta a quel tempo che immaginò di poter dominare un mondo unipolare (l’illusione della “fine della storia” di Fukuyama). Allora fu deciso cosa fare con l’Est europeo non più comunista (le guerre in Jugoslavia e in Ucraina hanno origine lì) e fu varata la cosiddetta globalizzazione. In quell’orizzonte ideologico, che ha accomunato liberal e neocon (non a caso entrambi ostili a Trump oggi), fu Bill Clinton, alla Casa Bianca dal 1992 al 2000, a decidere la strada. Come ha scritto Franco Bernabè, in un suo recente libro, «la presidenza Clinton è stata uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo. Ma nel senso opposto a quello che sostiene la vulgata progressista. Io penso che con Clinton sia cominciato il declino dell’Occidente e soprattutto il declino della democrazia».
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Viene infatti imposta una globalizzazione che – fra l’altro – trasforma la Cina nella fabbrica del mondo e le permette quindi una crescita smisurata (che oggi ne fa una potenza planetaria minacciosa). Da qui deriva la de-industrializzazione dell’Occidente, a scapito delle nostre classi lavoratrici e del nostro ceto medio. «Parte da Clinton e viene amplificato da Tony Blair e dai teorici della terza via» scrive Bernabè «il processo di involuzione dell’Occidente che porta alla crisi di oggi: l’idea che si possa fare a meno della manifattura e che al centro del sistema economico ci siano la finanza e la tecnologia, l’idea che i diritti civili siano più importanti dei diritti economici sui quali è stata costruita la storia dei partiti progressisti».
Questa «trasformazione genetica del capitalismo» ha prodotto «un’enorme crescita del malessere in tutto l’Occidente» dove i popoli non hanno più potuto difendersi con il loro strumento di rappresentanza, il voto, in quanto la deregulation finanziaria (che ha portato pure la deregulation antropologica di cui parla Galli), per affermare lo strapotere del Mercato, ha dovuto svuotare i poteri degli Stati, quindi delle rappresentanze democratiche e della politica. La delegittimazione degli Stati nazionali e lo spostamento di poteri verso organismi sovrannazionali in Europa è avvenuto in particolare attraverso l’“operazione Ue” (il Trattato di Maastricht è del 1992) che stravolse la vecchia Cee. Ma anche la teorizzazione e la pratica delle immigrazioni di massa ha fatto parte di questa politica di abbattimento delle frontiere e delle identità, che sono state demonizzate come il concetto stesso di patria.
Oggi siamo al capolinea di questa “rivoluzione”. Il rifiuto dello strapotere delle organizzazioni sovrannazionali connota l’attuale presidenza Usa, che cerca pure di strappare la Russia dall’abbraccio della Cina per trascinarla verso Occidente. Trump fa una politica commerciale di difesa degli interessi nazionali e vuole riportare la manifattura negli Usa. È il ritorno degli stati nazionali e della fisiologia democratica in cui la gente conta. Inizia un mondo multipolare, governato dalla politica (che mette fine ai conflitti) e non dalle tecnocrazie. Saremo più liberi, meno oppressi dal pensiero unico, dalla censura e dal controllo sociale come ha auspicato Vance a Monaco dove ha ammonito l’Europa che scappa “per paura” dagli elettori. I veri liberali dovrebbero capirlo. È la rivincita delle «culture che rivendicano il buon senso», come scrive Chantal Delsol in un libro di due anni fa, Il crepuscolo dell’universale (che in Italia esce, da Cantagalli, il 21 marzo). È la fine dell’utopia dello “Stato mondiale”. Delsol spiega che per Benedetto Croce, maestro della nostra cultura liberale, «l’aspirazione allo Stato mondiale» era «una tentazione umana che riflette l’hybris del particolare che ambisce all’universale concreto già qui sulla terra, il che è impossibile, e alla fine non giunge ad altro se non all’astrazione». Delsol propone questa citazione di Croce: «L’Anticristo pone se stesso come un universale senza individualizzamento, universale astratto che è un tiranno stupido ma pure un tiranno […] e mira ad attuare uno stato nel quale gli individui non sono l’universale nella sua concretezza, ma gli schiavi di quell’astrazione».
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