
Abbaglio dell'Economist: Starmer come Churchill, un paragone difficile anche da pensare

Chissà come l’avrebbe presa Winston Churchill se avesse saputo che un giorno lo avrebbero paragonato ad un incolore leader laburista che si dà molto da fare sulla scena internazionale ma che naviga al buio? Eppure, l’Economist, che un tempo era un autorevole settimanale liberale e oggi è voce influente del mainstream progressista globale, ha osato tanto. Nell’ultimo numero campeggia in copertina un Keir Starmer vestito alla Churchill, con tanto di cappello in testa e sigaro in bocca, con accanto un titolo a dir poco bizzarro: Winston Starmer.
Probabilmente, il vero Winston avrebbe sfoderato una delle sue sarcastiche battute, liquidando la faccenda in poche e definitive parole. In verità, il settimanale mostra qualche dubbio, se sente il bisogno di chiedersi se Starmer ce la farà, anche se non si capisce bene se a risolvere i suoi guai interni o a diventare un novello Churchill.
Ovviamente, il paragone non regge da nessun punto di vista. Tanto per cominciare, oggi la Gran Bretagna non è minacciata da un nemico che ai tempi di Churchill aveva già conquistato mezza Europa e cominciato a bombardare massicciamente Londra e dintorni. Il problema odierno è molto diverso: si tratta di riparare ad un grosso vulnus venutosi a creare con l’aggressione russa all’Ucraina, difendendo il principio dell’autodeterminazione dei popoli, e nello stesso tempo mettere fine a una guerra che ha già fatto tante vittime innocenti. Per quadrare il cerchio bisogna cercare una pace giusta, ma realistica. L’America sta ora tentando una via diversa da quella percorsa da Biden e che è fallita. Quanto al fatto che Trump non voglia più difenderci è certo un brutto colpo per noi europei, ma non si può pensare che sia un nostro diritto perpetuo che gli altri pensino a noi. Insomma, possiamo non condividere le scelte di Trump, ma questo non significa che l’America faccia parte, insieme alla Russia, di un nuovo asse del male pronto a conquistarci, come sembrerebbe dall’enfasi di certa stampa. Starmer stesso, d’altronde, ha dimostrato di averlo ben chiaro, come la sua visita a Trump ha dimostrato. Come dimenticare poi che Churchill, quando prese in mano le sorti del suo Paese, riuscì a conquistare il consenso di tutto il popolo, con la forza dei suoi discorsi e il coraggio della verità? E soprattutto con il suo innato carisma, che in politica, come ci ha insegnato Weber, è elemento fondamentale.
Qui la partita sembra invece giocarsi solo sui tavoli dei potenti: Starmer non solo non ha carisma, ma in poco più di sei mesi di governo è riuscito nell’impresa di scontentare tutti, anche quelli che lo votavano, perdendo consensi in misura esponenziale. Che poi la situazione sia cambiata in una sola settimana, l’ultima, che l’Economist ha definito «trasformativa», più che un auspicio sembra un atto di fede. Molto più probabilmente, l’attivismo in politica internazionale serve, a Starmer non meno che a Macron, per distrarre gli elettori e i media dai grandi e non risolti problemi che si trovano in casa. C’è qualcuno che si spinge poi ancora oltre e, incurante dell’esito di un referendum popolare, vede in Starmer addirittura il leader in pectore di un’Europa unita. A tal proposito, viene tirato fuori il discorso in cui egli auspicava, nel 1946, la nascita di «una sorta di Stati Uniti d’Europa».
Che questa Europa non avesse niente a che vedere con il dirigismo dell’Unione attuale è però ben chiaro: Churchill non parla di Stati ma di «popoli liberi d’Europa», ovvero di «milioni di famiglie, parlanti lingue diverse» che «devono spontaneamente associarsi».
Per il «raggruppamento europeo» egli pensa al «modello del Commnewealth britannico», in cui gli uomini desiderino «vivere secondo i principi ancorati nella Carta atlantica». Come dimenticare infine che Churchill, tutto al contrario di Starmer, era un fautore del libero mercato e un fiero avversario delle nazionalizzazioni?
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