
Donald Trump deve fare come Reagan: spostare il conflitto sul piano dei valori

Osservazione anti-antitrumpiana: a Trump ora servirebbe un “momento Reagan”. Un momento di vero reaganismo, che peraltro sarebbe tutt’altro che estraneo alla traiettoria politica di Trump, visto che “Make America Great Again” è il calco esplicito della campagna repubblicana del 1980.
Come Ronald raccolse e rianimò lo spirito americano piegato dall’inettitudine retorica di Carter, Donald ha riscattato la “terra dei liberi” dal tentativo obamiano (Biden è stato una comparsa) di normalizzarla, di renderla una socialdemocrazia 5.0 in salsa Woke. Adesso, farebbe bene a tutti (intendiamo a tutti coloro che si riconoscono in quello spazio geo-filosofico chiamato Occidente, gli altri possono prendere tranquillamente il primo biglietto di sola andata per qualche inferno totalitario esotico) che il 47esimo presidente degli Stati Uniti vivesse fino in fondo il suo “momento Reagan”.
Perché certo, Donald J. Trump ha dannatamente ragione. Il tritacarne russo-ucraino va chiuso, ogni giorno che passa distoglie l’America dalla priorità epocale, il confronto col Dragone cinese, e anzi rinsalda l’abbraccio contronatura tra questo e la potenza (regionale) russa. Zelensky ha inscenato nello Studio Ovale un suicidio strategico che oscilla tra l’incomprensione della storia e l’ingratitudine personale, i contribuenti americani chiedono conto, l’Europa è strutturalmente inadeguata e smaccatamente appesa al suddetto contribuente. È la diagnosi realista fine, al di là di certi toni iperbolici, che genera la postura geopolitica trumpiana, non rinnegheremo certo oggi quel che scrivevamo ieri. Eppure, aggiungiamo, manca la “città sulla collina”.
Manca quel mito (meta)politico che fonda l’eccezionalità americana, più volte rivendicato da Reagan. La città è l’America, come da immagine seicentesca del pastore puritano John Whintrop, uno dei primi pellegrini a inseguire l’ipotesi di un Nuovo Mondo. È il rifugio fisico e allo stesso tempo il faro intellettuale degli uomini liberi, è la loro teoria più affinata e allo stesso tempo la loro spada più efficace. Contro ogni “Impero del Male”, avrebbe detto Ronnie. Contro il nazifascismo prima, contro il comunismo dopo. Perché la verità fattuale è che Reagan vinse la Guerra Fredda così: alzando drammaticamente la posta.
Economica e militare, certo, con la corsa agli armamenti che il gigante d’argilla sovietico non poteva permettersi (imparare, governanti europei). Ma anche valoriale, esasperando la contrapposizione morale (secondo la scrittrice Ann Coulter fin teologica) tra i due modelli.
La città sulla collina e l’Impero del Male, la libertà e il gulag. È il motivo per cui, contro i consigli prudenziali dei suoi spin doctor, urlò «Mister Gorbaciov, abbatta questo Muro!» davanti a una folla di giovani tedeschi ed europei che esplose in un boato. Perché sapeva che quei giovani guardavano alla città sulla collina, a quell’unica nazione che prevede il diritto inalienabile al “perseguimento della felicità”, all’America.
Come scrisse un campione del paradigma realista quale Henry Kissinger: «Senza l’idealismo di Reagan la fine della sfida sovietica non avrebbe potuto verificarsi». Proprio in nome degli obiettivi che persegue, la pace attraverso la forza in Europa e il riallineamento strategico del mondo libero di fronte all’unica minaccia davvero esistenziale, quella cinese, se Trump recuperasse questo “idealismo” tutto americano e conservatore farebbe scacco matto.
Non è l’idealismo vacuo e moralistico dei suoi critici, è la sfida a tutto campo della città sulla collina contro le tribù barbariche di pianura. «Noi vinciamo, loro perdono» diceva Ronnie, e potrebbe essere un formidabile slogan trumpiano.
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